La globalizzazione che non c’è più **

di Carla Evangelista

La definizione di globalizzazione non può essere unica perché dipende dal punto di vista di chi la formula. Secondo gli Usa rappresenta il volto benigno dell’impero americano, secondo la Russia è la strategia di annientamento della sovranità russa, secondo la Cina invece significa unire tutto il globo terrestre con la Cina al centro. Tuttavia è utile capire come e quando essa è nata: per risollevarsi da una situazione economica critica dovuta all’inflazione degli anni ‘70 e alle spese della guerra fredda, gli Usa decisero di aprire alla Cina tanto che dai 4 miliardi di scambio commerciale del 1981 si passò ai 18 del 1989, operazione conclusa nel 2000 quando la Cina entrò nell’organizzazione mondiale del commercio. In cambio di esportazioni cinesi a basso costo, la Cina accumulava obbligazioni Usa: il debito federale, che era di 200 milioni di dollari nel 1989, è arrivato nel 2021 a 1100 miliardi, valuta che sostiene il renmimbi attraverso le riserve di dollari. Questo è stato il vantaggio per la Cina assieme a una crescita esponenziale dell’export e quindi dell’occupazione e del reddito. I vantaggi per gli Usa sono stati potere d’acquisto maggiore per tutti, collocazione del debito pubblico con conseguente abbassamento dei tassi di interesse, spesa sociale pagata a debito alla working class che ha sofferto la deindustrializzazione. Gli ultimi due punti hanno portato in sé i germi degli svantaggi dovuti allo scambio Usa-Cina: l’abbassamento dei tassi porterà ai mutui facili e quindi alla crisi bancaria del 2008, mentre la deindustrializzazione dovuta alla delocalizzazione porterà alla crisi del manifatturiero Usa cioè alla disoccupazione. Quando gli Stati Uniti cominciano a porvi rimedio prima con Trump poi con Biden mediante una reindustrializzazione incentivata da sussidi e attuazione del decoupling (disaccoppiamento della produzione), finiscono i vantaggi per la Cina che tuttavia da un reddito pro capite di 333 dollari del 1985 è arrivata a 12.500 dollari del 2021. La globalizzazione arriva perciò alle corde. Il decoupling Usa non è affatto semplice: gli iPhone sono assemblati in Cina con componenti prodotte da Giappone, Taiwan e Corea del sud; quando Washington impone alla Repubblica Popolare dazi su singoli prodotti, finisce per imporli anche ai propri alleati. Come non è semplice il decoupling taiwanese: infatti Taiwan esporta in Cina il 25% sul totale del suo export e importa il 20%: percentuali che sono rimaste uguali a quelle precedenti il 2016 da quando ha preso il potere un partito non favorevole alla riunificazione di Taiwan alla Cina quindi schierato apertamente con gli Usa. La Cina ha meno problemi perché la globalizzazione non le ha permesso solo un rapporto vantaggioso e complementare con gli Usa, ma ne ha prodotto l’apertura a una serie di paesi che già si orientano per una rivisitazione della globalizzazione o meglio una sua limitazione al sud del mondo, primo fra tutti il Brasile che ha con la Cina uno scambio mutuamente vantaggioso (alimenti e petrolio in cambio degli investimenti cinesi nelle infrastrutture) e la maggior parte degli stati africani tra cui il più ricco, il Sudafrica. Ulteriore spinta verso questo tipo di globalizzazione limitata al sud del mondo l’ha data la guerra in Ucraina in conseguenza della quale la Russia è entrata in questo club: basti pensare alla votazione delle due risoluzioni ONU del febbraio 2022 quando venticinque stati africani si sono astenuti (o erano mancati in aula al momento del voto) e anche Cina e Sudafrica si sono astenuti. Gli Usa naturalmente hanno reagito prima di tutto alla guerra con le sanzioni e in secondo luogo con una riformulazione del loro impero. La prima strada è ugualmente difficile che il decoupling: ci sono tanti strumenti per aggirare le sanzioni che mettono a rischio la loro efficacia. È stato creato un sistema di credito interbancario alternativo allo swift che è il sistema americano; si occulta l’origine del petrolio russo che risulta sdoganato se entra in un carico in percentuale inferiore al 50%. Lo strumento più efficace è forse l’import parallelo: il diritto del fabbricante al controllo della destinazione del proprio prodotto decade con la prima vendita dello stesso; ciò significa che se un marchio di alta moda italiano vende alla Turchia non può più sindacare a chi quest’ultima lo vende, in virtù di questo la Russia ha importato dal mondo nel 2022 16 miliardi di dollari in merce. La seconda strada intende allargare la NATO a chi spende davvero per la difesa come Giappone, Australia e Israele, e formalizzare alleanze asiatiche: l’impero sarebbe l’occidente allargato e la missione rallentare la Cina. Nella stessa strategia rientra la svolta hamiltoniana: si tratta di garantire che l’America rimanga tecnologicamente davanti alla Cina. Occorre aiutare le imprese statunitensi a conquistare quote di mercato attraverso l’innovazione e le politiche industriali; il recente Chips and Science Act che include finanziamenti per le fabbriche di semiconduttori è andato in questa direzione. Lo stesso vale per i controlli sulle esportazioni di chip introdotti da Trump e Biden. La svolta hamiltoniana si oppone al neoliberismo secondo cui il compito della politica è eliminare le distorsioni del mercato e massimizzare il benessere economico, per questo i neoliberali ritengono vi sia poca differenza tra i chip elettronici e le patatine fritte. L’economia hamiltoniana invece reputa più importanti i comparti basati sull’innovazione e afferma che questi vanno coperti con politiche governative intelligenti. L’America non si propone più di americanizzare il globo (vedi la guerra in Afghanistan) come è stato americanizzato il Far West. Parlare di due globalizzazioni (una limitata all’occidente e un’altra al sud del mondo) è un ossimoro, meglio usare il termine multilateralismo, ma con una guerra in atto esso è più un obbiettivo che una realtà, mentre la globalizzazione come l’abbiamo conosciuta è finita anche se non manca chi ne sente ancora il fascino, non per motivi sentimentali ma per interesse economico. Per esempio, in Germania mentre le piccole e medie imprese stanno provando ad adattarsi alla nuova fase (mediante reshoring e nearshoring) i grandi colossi come BASF, Mercedes Benz e Volkswagen, troppo dipendenti dalla Cina per ripensare il loro modello produttivo, continuano a investire corposamente. Del resto, le aziende tedesche riflettono la carenza di unanimità della politica: la ex cancelliera Angela Merkel non ha nascosto la propria avversione alla linea di chi vuole rompere duramente con la Russia e ha aggiunto che se Helmut Kohl fosse ancora vivo suggerirebbe di prepararsi al momento in cui le relazioni con Mosca potranno essere ristabilite. Troppe scelte dunque devono ancora essere fatte per capire cosa sostituirà nel nostro futuro la globalizzazione che non c’è più.

** questo articolo è una sintesi di informazioni desunte dalla rivista di geopolitica “LIMES” n° 1/2023 e n° 4/2023

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