Santo Stefano di Sessanio: per un piatto di lenticchie! (seconda parte)

   di Vittorina Castellano

(… continua) L’estate era alle porte, le piante di lenticchie crescevano rigogliose sotto la supervisione di Claudio che aveva programmato di raccoglierle a luglio per farle essiccare, in modo da sgranare i baccelli più facilmente. Gli abitanti del borgo erano poco più di cento, molti giovani erano tornati in paese per avviare attività turistiche ma la maggior parte delle case del centro storico accoglievano ospiti temporanei come albergo diffuso. Fortunatamente queste dimore turistiche non erano state danneggiate, le solide strutture in pietra calcarea avevano sopportato le scosse sismiche. A giugno, a due mesi dal disastro tellurico, il borgo era pronto per accogliere di nuovo gli ospiti. Alla rinascita mancava solo la torre medicea ma la convergenza di alchimie, emanate dal fascino di uno dei borghi più belli d’Italia, sopperiva all’infausta assenza. Ci sarebbe voluto del tempo e dei cospicui finanziamenti per il restauro completo del capolavoro merlato.

Angelica aveva ereditato la casa dei nonni e aveva lasciato Milano, dove i genitori avevano aperto un ristorante di specialità gastronomiche abruzzesi. La giovane, appena ventenne, aveva frequentato l’alberghiero e fatto esperienza nell’attività di famiglia. Era arrivata a Santo Stefano di Sessanio subito dopo il terremoto, la casa ereditata era in ottimo stato, qualche papavero spuntava tra i ciuffi di erba intorno al pozzo del cortile interno. La bizzarra architettura del borgo, arroccato a nido d’aquila sullo sperone montuoso, definiva spazi pittoreschi con archi, scalinate e cavedi.

Angelica aveva portato con sé i risparmi dei suoi genitori, per avviare un’attività di ristorazione. Aveva ottenuto i permessi e ora si accingeva ad adattare il piano terra in una tipica e accogliente cucina – taverna. Claudio e Angelica si erano conosciuti nelle lunghe riunioni del comitato civico a Palazzo mediceo e avevano scoperto che i loro genitori erano cresciuti insieme prima di innamorarsi ed emigrare in cerca di una migliore prospettiva di vita. L’ampio piano terra, imbiancato e luminoso era stato arredato con tavoli e panche di legno, la cucina, a vista, era rustica ma ben attrezzata. Claudio si era offerto, in cambio di un piatto di lenticchie al giorno, di collaborare alla trasformazione del locale e così, giorno dopo giorno, piatto dopo piatto, nella più assoluta spontaneità e naturalezza, tra i due giovani iniziava a sbocciare un tenero sentimento. La nonna di Claudio aveva intuito che non si trattava di una semplice amicizia e così una mattina, mentre gli preparava la colazione, disse al nipote:

«La bardasce è bbelle e brave, sa cucinà, facce nu pinzire, nen te la fa’ scappà!»

«Nonna cara, sò capite l’antifone! Me la sogno tutte le notti! E come mi dici sempre tu, se sono rose fioriranno!»

I vicoli stretti e tortuosi del borgo si ripopolarono di turisti, per lo più inglesi. Angelica, con la collaborazione di Claudio, preparava gustosi piatti della tradizione, rivisitati in chiave gourmet: aveva sempre il locale pieno. Naturalmente tutti i piatti erano a base di lenticchie, la ragazza, da brava cuoca aveva strutturato un menù degustazioni per palati rustici e raffinati. Pochi piatti ma gustosi e appaganti. Claudio ogni mattina, all’alba, andava a cogliere nell’orto le verdure per le preparazioni culinarie. Come antipasto serviva delle bruschette di pane casareccio che solo la nonna di Claudio sapeva fare. Sulle fette spalmava un morbido hummus di lenticchie, frullate con l’olio extravergine di oliva, l’aglio, il succo di limone, la tahina, la paprika, coriandolo, sale e pepe.

Come primo una zuppa fumante. Angelica iniziava la preparazione con un trito di cuore di porro, sedano, carota e uno spicchio di aglio. Quindi in una pentola dai bordi alti faceva soffriggere con un giro di olio, il trito di verdure e una foglia di alloro. Poi aggiungeva le lenticchie e le sfumava con 1/2 bicchiere di vino rosso. Subito dopo aggiungeva il brodo già caldo coprendo a filo le lenticchie, portandole a cottura e condiva con un giro di olio, aghi di rosmarino tritati e crostini di pane a piacere.

Un’altra possibilità di scelta era la vellutata di lenticchie che poneva sul fuoco in una pentola con aglio pestato, timo, aneto e cipolle tagliate a metà, acqua fredda e sale. A cottura ultimata eliminava gli aromi e l’aglio e frullava le lenticchie fino a ridurle in crema. Aggiungeva la panna, pepe e un pizzico di noce moscata. Serviva in ciotoline la vellutata con un filo di olio a crudo e qualche crostino. In alternativa alle zuppe preparava uno sformato con crema al pecorino. Lessava le lenticchie insieme alla patata sbucciata e tagliata a cubetti, a metà cottura aggiungeva rondelle di zucchine o di zucca, secondo quello che aveva a disposizione nell’orto di Claudio. In un tegame faceva rosolare un trito di cipolla e carote, vi versava le lenticchie ben cotte e lasciava insaporire mescolando. .Frullava il contenuto della pentola, salava, aggiungeva una spolverata di pepe, un po’ di prezzemolo tritato, 1’uovo e il parmigiano. Raccoglieva il composto in una ciotola e mescolava con pangrattato. Una volta in forno, preparava la crema al pecorino che versava sulle porzioni di sformato.

Una sera. Angelica, mentre si allisciava i lunghi capello biondi, sistemandoli sulle spalle, chiese al ragazzo che l’aiutava a sparecchiare i tavoli.

«Finito il raccolto delle lenticchie tornerai a Toronto?»

«No! Non posso, non voglio lasciarti, ho capito che il mio futuro è qui con te. Ho capito che sei la mia migliore amica di cui sono segretamente innamorato. Ecco, ora lo sai, cosa mi rispondi?»

La ragazza s’illuminò di uno splendido sorriso e con gli occhi lucidi di emozione, abbracciò il suo Claudio.

«Ringrazio il destino che mi ha portato qui a Santo Stefano di Sessanio e mi ha fatto incontrare l’amore della mia vita!»

Per coronare il loro sogno d’amore avevano scelto la chiesetta della Madonna del Lago, una piccola ma romantica cappella costruita nel XVII secolo, a navata unica, barocca, con portico sulla facciata, situata un po’ fuori dal paese, vicino al laghetto di Santo Stefano. Fu un giorno indimenticabile, il borgo si popolò di parenti e amici accorsi per festeggiare gli sposi, l’albergo diffuso ospitava una grande famiglia allargata. La Torre medicea era tornata a svettare sulle incantevoli vallate. (fine)

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