Carcere, REMS e diritti umani: una riflessione

di Gaia Lorenzini*

Era con la legge n. 354/1975, tre anni prima della riforma che ha preso il nome dal suo promotore, lo psichiatra Franco Basaglia, che il manicomio giudiziario mutò il nome in Ospedale psichiatrico giudiziario (OPG), permettendo così un cambiamento di visione dal malato psichiatrico, autore di reato e persona che deve essere punita, a persona che deve essere innanzitutto curata. Attraverso questa legge furono introdotte misure prevalentemente mirate alla cura delle persone e al loro reinserimento nella società.

Un ulteriore passo avanti fu compiuto nel 2003, quando la Corte costituzionale decretò che il ricovero negli OPG non poteva essere dato come unica opzione possibile, ma dovevano essere fornite anche altre alternative, come le comunità terapeutiche o lo stesso nucleo familiare della persona.

Dopo diversi passaggi legislativi, tra cui, nel 2008, il passaggio di competenze dal Ministero della Giustizia a quello della Sanità, si è arrivati infine alla legge n. 81/2014 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari), che ha sancito la chiusura definitiva degli OPG e la creazione delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS).

All’interno della REMS possono essere accolte massimo venti persone, e vi lavora un’equipe composta da psichiatri, psicologi, OSS, assistenti sociali, infermieri, educatori/terapisti della riabilitazione e personale amministrativo, equipe che si occupa di predisporre un programma terapeutico individuale. Il ricovero in REMS viene però considerata una misura in extrema ratio, utilizzabile solo quando altre misure non sono possibili, a causa della condizione di pericolosità sociale della persona. Altro elemento importante è che tale ricovero è una misura temporanea e transitoria.

E ora, a otto anni da questa legge, com’è la situazione? Il problema che sembra più urgente è sicuramente quello delle liste di attesa. Come segnala infatti l’Associazione Antigone nel suo XVII rapporto sulle condizioni di detenzione, le “liste d’attesa” sono […] gestite a livello regionale, senza criteri di priorità condivisi e senza una banale condivisione dei numeri. Per questo motivo, al 30 novembre 2020, il sistema Smop segnala 175 persone “in lista d’attesa” (di cui il 31% in attesa in istituto penitenziario), numeri in crescita rispetto alla stessa data del 2019, quando le persone in lista d’attesa erano 92. Tali numeri sono tuttavia fortemente sottostimati, altre autorevoli fonti, come la Relazione annuale al Parlamento dell’Autorità garante delle persone private della libertà, segnalano un numero ben maggiore, oltre le 700 persone. Se per coloro che affrontano tale periodo in comunità o al domicilio, attraverso il supporto dei servizi psichiatrici del territorio, questa attesa non sembra essere un problema, permettendo anzi ad affrontare un percorso di terapia con buoni risultati, lo stesso non si può dire per coloro che attendono in carcere. Sono diversi i casi, infatti, di persone che aspettano di essere inserite nelle REMS da dietro le sbarre di una cella, aumentando anche i sintomi delle patologie di cui sono vittime.

È ad esempio il caso del sig. Giacomo Seydou Sy, la cui vicenda ha fatto meritare all’Italia una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Il sig. Sy, infatti, affetto da disturbi della personalità, aggravati dall’utilizzo di sostanze, nel 2017 è stato accusato di molestie, resistenza a pubblico ufficiale e percosse.

Visti i reati commessi e la sua condizione psicologica, il sig. Sy è stato considerato pericoloso socialmente (altra definizione che è stata fortemente condannata dalla CEDU) e condannato a scontare la sua pena all’interno di una REMS. Peccato che, a distanza di cinque anni, passati entrando e uscendo dal carcere, dopo diverse istanze del suo avvocato difensore e dopo un tentato suicidio, il sig. Sy sia ancora dentro al carcere di Rebibbia, in attesa di un posto dentro una REMS.

Nel 2020, il sig. Sy si è rivolto alla CEDU, che gli ha dato pienamente ragione con le seguenti motivazioni: “[…] la Corte ritiene che, alla luce dei principi giurisprudenziali sopra menzionati, l’esame della legittimità richiede anche di esaminare se il legame tra il motivo della privazione della libertà e il luogo e le condizioni di detenzione sia continuato per tutto il periodo di detenzione. Ricorda che, in linea di principio, la “detenzione” di una persona affetta da malattia mentale può essere considerata legittima […] solo se avviene in un ospedale, in una clinica o in un’altra struttura adeguata […]. La Corte osserva che lo scopo della detenzione in una REMS non è solo quello di proteggere la società, ma anche di fornire all’interessato le cure necessarie per migliorare, per quanto possibile, il suo stato di salute e rendere così possibile la riduzione o il controllo della sua pericolosità […]”.

Era quindi essenziale che al richiedente fosse offerto un trattamento appropriato al fine di ridurre il pericolo che rappresentava per la società. Tuttavia, risulta dal dossier che anche dopo la sentenza della Corte d’appello di Roma che ordina la sua liberazione, il ricorrente non è stato trasferito in una REMS. Invece, ha continuato ad essere detenuto in carceri ordinarie in condizioni scadenti e non gli è stata fornita un’assistenza terapeutica individualizzata […]. La Corte ribadisce che lo Stato è obbligato, nonostante i problemi logistici e finanziari, a organizzare il proprio sistema carcerario in modo tale da garantire che i detenuti siano trattati nel rispetto della loro dignità umana. Anche se un divario tra la capacità disponibile e quella necessaria può essere inizialmente considerato accettabile, il ritardo nell’ottenere un posto non può continuare indefinitamente ed è accettabile solo se è debitamente giustificato. [..] Di conseguenza, la privazione della libertà del ricorrente dal 21 maggio 2019 non è stata effettuata in modo coerente con i requisiti dell’articolo 5 § 1 [della Convenzione europea dei diritti dell’uomo].

Sembrerebbe perciò urgente e necessario applicare in modo coerente la legge n. 81/2014, attraverso il potenziamento e l’aumento dei posti disponibili all’interno delle REMS ma anche favorendo le reti sociali e sanitarie del territorio, in modo da poter aiutare il reinserimento sociale di queste persone non istituzionalizzandole, ma facendole diventare parte integrante della comunità a cui appartengono.

Per poter veramente affrontare la “malattia”, dovremmo poterla incontrare fuori dalle istituzioni, intendendo con ciò non soltanto fuori dall’istituzione psichiatrica, ma fuori da ogni altra istituzione la cui funzione è quella di etichettare, codificare e fissare in ruoli congelati coloro che vi appartengono.

Ma esiste veramente un fuori sul quale e dal quale si possa agire prima che le istituzioni ci distruggano?” (Franco Basaglia)

*Assistente Sociale Specialista – Vice Presidente CNAPPD (Comitato Nazionale Antidiscriminatorio Persone con Disabilità)

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