Elizabeth Lee: ”Il coronavirus fa emergere la sinofobia”
Abbiamo intervistato la giovane Elizabeth Lee, nostra concittadina di origine cinese ma nata e cresciuta a Montesilvano e ora studentessa al Politecnico di Milano. Con lei abbiamo affrontato il tema della sinofobia latente che attraversa la nostra comunità come reazione alla possibile diffusione del coronavirus.
D.Elizabeth, la ritroviamo dopo un paio di anni dalla intervista che pubblicammo sul numero di ottobre 2017 a seguito della sua partecipazione e selezione come finalista del concorso Gocce di Minerva. Ha poi pubblicato il romanzo che le ha permesso di accedere alla fase finale del concorso?
R.Per il momento sono in contratto con la Minerva Edizioni, il libro verrà pubblicato, suppongo entro quest’anno, in forma digitale.
D.Riesce a coltivare la passione per la scrittura anche in qualità di studentessa fuori sede della facoltà di Architettura al Politecnco di Milano?
R.La facoltà che frequento al PoliMi si chiama “Ingegneria Edile-Architettura”: essa comprende oltre alle materie ingegneristiche da studiare anche laboratori e progetti da seguire, per cui non ho molto tempo per scrivere … però l’ambiente di Milano, dell’università, e in particolare la facoltà di Architettura stessa, saranno spunti per il mio prossimo romanzo.
D.Viene spesso a trovare la sua famiglia qui a Montesilvano?
R.Non molto spesso, torno solo in corrispondenza dalle festività, treno permettendo.
D.Lei è nata in Italia, è tornata con i suoi genitori in Cina fino all’età di 10 anni; in Italia ha acquisito, come lei ci ha raccontato, la cittadinanza italiana. Rispetto all’epidemia di coronavirus e alla diffidenza esplosa nei confronti degli asiatici che vivono da anni in Italia, le sono accaduti episodi incresciosi?
R.È proprio qui che volevo arrivare, quando ci siamo sentiti in preparazione di questa intervista avevo qualcosa da raccontare. Dopo che il coronavirus è arrivato anche in Italia, a Milano la situazione era comunque pacifica, andavo in giro normalmente, senza la mascherina ovviamente, non percepivo la sensazione di “diffidenza” e non ricevevo nessuno sguardo diverso. In via Paolo Sarpi, la Chinatown milanese, la gente andava lo stesso e davanti alla ravioleria di Sarpi si faceva la fila per prendersi 4 ravioli fatti a mano… Finché non mi è accaduto l’altro giorno qualcosa di strano: ero sul bus 91, seduta, quando vedo una signora anziana salire sull’autobus: mi alzo per cederle il posto, la signora mi sorride e mi ringrazia. Prima di scendere, lei si alza e mi abbraccia, dicendomi: “Sei stata gentilissima, non mi sentivo molto bene, menomale che mi hai fatto sedere, grazie mille.” Ero felice, non era la prima volta che mi accadeva e aiutare fa sempre piacere. Scendo alla stessa fermata e dopo una decina di metri sento uno schiaffo sulla testa, mi giro e c’erano due ragazzini, forse della scuola media, li fermo e di primo istinto dico: “Che volete?”. Questi ultimi chiaramente fanno finta di niente, si sforzarono un attimo per difendersi: “E’ stato un ragazzo che è corso via”, e dopo un po’ scappano. Non pensavo che una cosa simile potesse accadere a me, e quei ragazzini forse nemmeno si aspettavano che parlassi italiano; c’era la gente affacciata sulla finestra, ma nessuno ha detto nulla. Ho percepito un misto di sensazioni che è difficile da descrivere, specialmente per questi due episodi che sono accaduti in un tempo così ravvicinato: uno è fatto di rispetto e uno di “scherzo di cattivo gusto” (avrei usato delle parole peggiori). Al posto mio una qualsiasi altra ragazza cinese poteva incontrare questi due ragazzi e magari non avrebbe avuto neanche la possibilità di parlare semplicemente perché non sapeva parlare italiano: Milano è piena di studenti internazionali, cinesi soprattutto. Non penso che ciò sarebbe accaduto se non fosse apparso il coronavirus, ma esso è solo una scusa per esternare il razzismo che alcune persone hanno dentro di sé.
D.Il timore del contagio da coronavirus ha a suo avviso acceso una sorta di xenofobia che nulla a che fare con la giusta prevenzione da adottare per persone, italiane o cinesi, che provengono da luoghi dove è attiva l’epidemia?
R.Non è corretto parlare di xenofobia, ma di sinofobia. Ho sentito diverse notizie dei cittadini italiani rientrati da Wuhan, che sono stati intervistati, messi in quarantena, ma non mi sembra che le persone abbiano paura di loro. Non sto giustificando i cittadini di Wuhan che in un periodo così critico sono andati comunque in giro come se niente fosse, ma ciò non giustifica il comportamento di molte persone che si sono scagliate contro la popolazione cinese per qualsiasi motivo. Ho letto molte cose assurde in quest’ultimo periodo, specialmente sui social, da “i cinesi mangiano i cani” (ancora? di questa storia non se ne può più!) a “i cinesi devono morire tutti”. Ho visto dei ragazzi cinesi nati in Italia che hanno girato dei video per difendere la comunità cinese (come quel ragazzo di Firenze), con dei commenti delle persone del tipo “non vi siete mai lamentati di nulla, come mai solo ora vi sentite discriminati? Tornatevene a casa vostra!”. Io penso che una sorta di sinofobia ci sia sempre stata qui in Italia, ma non si è mai sentita così forte. Quel che mi è accaduto l’altro giorno mi accadeva anche quando, appena arrivata in Italia, non parlavo bene italiano. Nessuno può negare il fatto di non aver mai sentito qualcuno che dice “cinesi di m*” (scusa le parole), ma poi quella stessa persona che l’ha detto il piede in un negozio cinese o in un ristorante cinese ce l’ha messo. Questa sinofobia non è creata dal coronavius, ma dall’ignoranza, e quest’ignoranza fa male molto più del virus.
D.Ha qualche suggerimento da fornire agli italiani o europei in generale che permetta loro di distinguere chi vive in Italia, e quindi lontano da zone soggette a epidemia, rispetto a chi invece proviene da zone potenzialmente a rischio contagio?
R.Non ho nessun suggerimento a riguardo, dal momento che si muovono italiani e europei in generale, che sono stati a Wuhan o in Cina, e a questo punto credo debbano essere messi in quarantena anche loro. Facendo parte dell’Associazione studentesca cinese del Politecnico di Milano, so che è stato imposto a tutti gli studenti cinesi appena rientrati dalla Cina, di qualsiasi zona, vicina o lontana da Wuhan, di isolarsi per almeno 14 giorni per evitare il rischio di contagio. Ciò vale per tutte le altre università in Italia e vale in generale per tutti i cittadini cinesi che si sono messi in quarantena una volta tornati in Italia, perché sono responsabili e coscienti di ciò. Volendo sdrammatizzare direi che se gli italiani possono essere contagiati, anche la popolazione cinese che vive in Italia da una vita può essere contagiata perché il virus di certo non riconosce se sei cinese o italiano.