Come annullare il leaderismo

   di Marco Tabellione

Mettiamo subito le cose in chiaro: io non credo nel potere, non credo in nessuna forma di autorità. È una pulsione istintiva, inconscia, sicuramente nasce dai primi anni di vita e dal rapporto edipico con mio padre, che tra l’altro ho molto amato soprattutto negli ultimi anni. Tuttavia mi sembra evidente che questa forma di rifiuto, che non si è mai concretizzato in nessuna prassi di ribellione, ma ha sicuramente stimolato i miei studi e la lettura delle opere poetiche, letterarie e filosofiche che ho da sempre condotto, non è solo mia, non giace solo nelle mie nevrosi, è una condizione diffusa, ed è assolutamente centrale nelle forme artistiche di tutti i tempi.

    Solo per fare un esempio, l’opera di Kafka, che come me molti considerano il più grande scrittore del Novecento, dai romanzi ai racconti, non è che una continua ripetizione di questo ma fondamentale tema: il rapporto con il potere e la nascita da un lato di un senso di colpa per i mancati adempimenti verso di esso, dall’altro di una insofferenza latente, nervosa, un desiderio immenso di scrollarsi di dosso una volta per tutte sia il senso di colpa, sia soprattutto l’oppressione e l’autoritarismo di chi si arroga il diritto e il dovere di decidere per gli altri. Riducendo la questione al nocciolo, si può affermare che alla base di tutte le tematiche ideologiche, e di gran parte delle analisi condotte sull’uomo e sulle civiltà e le loro tipologie organizzative, alla base della stessa Storia, vi è la continua lotta tra individuo e potere. Questo è il cruccio fondamentale, questa è la soglia per qualsiasi viaggio.

    Esiste un dilemma che ha accompagnato l’evoluzione, le parabole storiche e tutte le vicissitudini contemporanee. Questo dilemma si può sintetizzare nel seguente modo: come da un lato assicurare la libertà all’individuo e come dall’altro cercare di controllare la sua libertà affinché l’individuo non danneggi gli altri e sé stesso. In poche parole, fino a che punto l’individuo è in grado di decidere per sé e fino a che punto invece ha bisogno che a decidere siano altri o gruppi di altri, i quali hanno come orizzonte di riferimento non la vita del singolo, ma la difesa di singoli all’interno di una comunità.

    Da sempre la soluzione a questo dilemma è stato uno solo: il potere è un male necessario. Prendiamo un esempio limite. Un bambino sta per sporgersi eccessivamente dalla finestra rischiando di cadere giù, un adulto che si trova lì vicino lo afferra violentemente privandolo della libertà ma nello stesso tempo salvando la sua vita. Questo caso limite, nel quale la responsabilità della vita di alcuni è assunta da altri, spiega alla base da sempre ogni forma di potere, finanche quello democratico. È evidente che la democrazia non realizza la libertà dell’individuo, assolutamente no, la democrazia allarga il più possibile l’opportunità di partecipazione al potere, sia nella forma dell’elettorato attivo, chi vota, sia nella forma di quello passivo, chi viene votato. Ma alla fine della tornata elettorale il risultato è sempre lo stesso: la creazione di un potere che agisce e decide per gli altri e si arroga la responsabilità della vita degli altri, nei limiti di campi che però sono determinanti, come quello economico o giudiziario. Questa condizione è palesemente accettata da tutti, l’idea di una necessità dei leader è un assioma che non viene mai messo in discussione, non solo negli apparati politici, ma in qualsiasi campo, dalla famiglia alla scuola, dalle aziende alle associazioni di volontariato. Che ci sia la possibilità di un cambio magari frequente dei vertici e che questa possibilità oggi venga assicurata dalla democrazia, non cambia il paesaggio di fondo, caratterizzato dall’esistenza di un’autorità di cui non si può fare a meno.

    Dopo tanti anni trascorsi a cercare una risposta, quasi fosse la risposta a tutto, a cui rinviare persino il problema religioso (chi è Dio se non il potere supremo?), dopo soprattutto la lettura dei romanzi di Dostoevskij e soprattutto Tolstoj (ad esempio un romanzo atipico come La confessione) credo di essere giunto ad una svolta, ad una chiave che potrebbe indicare una via di uscita. L’anello che mi mancava mi è stato fornito da un grande psicanalista italiano, Massimo Recalcati. In uno dei suoi ultimi libri La parola della legge, dedicato alla lettura interpretativa di passi della Bibbia, l’autore si orienta già dall’inizio a definire la Legge come il tentativo di consentire il consorzio umano, cioè la convivenza tra gli uomini, mediante singole ripetute castrazioni, proprio così castrazioni, termine credo mutuato da Lacan, lo psicanalista francese che con Freud e Jung costituisce, si potrebbe dire così, una triade basilare della psicanalisi. Perché castrazione? La parola è quanto meno pesante. Ad esempio immaginate cosa voglia dire castrazione per un leader politico odierno, vorrebbe dire non voler vincere, non voler avere l’assegnazione del potere.

    Ma in realtà castrazione vuol dire semplicemente riconoscimento dell’altro, riconoscimento della libertà altrui, fino alla rinuncia non alla mia libertà, ma alla tentazione di voler decidere per lui. Vuol dire riconoscimento nell’altro di “un altro me”, e questa è la formula di un vecchio saluto Maja “In lak’ech”, che vuol dire appunto “tu sei un altro me”. I Maja avevano risolto la questione in modo definitivo. Se l’altro è me io non potrò mai agire contro di lui, perché tutto ciò che farei all’altro lo farei a me. A questo punto non si tratta più di potere esercitato e potere subito; nell’esempio da noi adottato l’adulto non si impedirà di salvare il bambino, lo farà, ma lo farà anche per salvare sé stesso, e in ogni caso il salvataggio del bambino non implicherà poi la sua diminuzione in termini di libertà.

    Evidentemente, e ci avviamo alla conclusione dell’articolo, si giunge a prospettare così un nuovo clima in cui le persone verrebbero a trovarsi e a muoversi, un clima che però può essere assicurato solo dalla cultura, e in special modo dalla frequentazione dell’arte e della poesia, perché solo l’arte e la poesia ci possono convincere a rinunciare alla visione fallica e bellica che ognuno di noi non solo detiene, ma difende a spada tratta. In realtà si tratta di una soluzione affatto nuova, anzi essa esiste da migliaia di anni, ed è appunto la soluzione prospettata da Cristo, soluzione che però è sempre stata sistematica tradita, a cominciare dalle istituzioni che avrebbero dovuto garantirne la diffusione. Ma, e finisco, tale soluzione non è solo patrimonio del cristianesimo, è il cuore essenziale di molte altre religioni, e andrebbe autenticamente e concretamente riabilitata.

Lascia un commento