Intervista al Professor Ezio SCIARRA*

La democrazia partecipativa dei beni comuni (seconda parte)

di Gabriella Toritto

(.. continua..)

D.4 Professore, i beni comuni possono eliminare il prelievo fiscale sui cittadini, senza ridurre le entrate dello stato destinate alla copertura delle spese pubbliche di welfare per tutti?

R.4 I beni prodotti dalla natura, come le materie prime e l’energia primaria, poiché beni appartenenti in parti uguali alla comunità dei cittadini, devono essere amministrati dallo stato per ricavare ampi utili. Tali utili derivano dalla vendita delle concessioni d’uso di materie prime ed energie alle imprese private (secondo le quotazioni di borsa) per un valore fino alla metà del PIL. L’altra metà del PIL deve essere assicurata (con rendimenti esentasse) alle imprese private e al lavoro di trasformazione delle materie ed energie primarie in merci finali, che producono la ricchezza sociale.

Con gli utili, derivanti allo stato dai beni comuni, è possibile eliminare il prelievo fiscale sui cittadini. Infatti gli ingenti utili, ricavati dallo stato attraverso le concessioni retribuite, servono ampiamente a procurare le entrate necessarie a sostenere tutte le spese previste nella legge di bilancio dello stato, sia per il suo funzionamento sia per i servizi a favore dei cittadini.

Le entrate, finora derivate da imposizioni fiscali ai cittadini, non saranno più necessarie perché sostituite dal rendimento dei beni comuni pubblici. Infatti le entrate, derivanti dalle concessioni dei beni comuni e relative a tutte le materie ed energie primarie del territorio pubblico (offerte al mercato privato produttivo secondo le quotazioni di borsa), sarebbero più che sufficienti per corrispondere a tutti i cittadini i servizi gratuiti di welfare integrale, dalla casa all’assistenza sociale per inabili e indigenti, dalla sanità alla scuola, dal lavoro agli infortuni, dalle pensioni alle invalidità, dalla malattia alla disoccupazione involontaria (Articolo 38 della Costituzione Italiana).

Assolte tutte le spese di un welfare integrale per dare i diritti costituzionali alla vita e al benessere a tutti, in caso di avanzi di bilancio è possibile anche distribuire dividendi monetari con quote uguali per ogni singolo cittadino, in virtù dei diritti di partecipazione ai dividendi sui beni comuni. Chiariamo che i servizi gratuiti di welfare integrale ad ogni cittadino sono in effetti pagati dagli stessi cittadini, ma non più mediante il prelievo fiscale, quanto sulla copertura economica degli utili dei beni comuni appartenenti ai cittadini e amministrati dallo stato per conto degli stessi cittadini. Questi ultimi, dal loro canto, preferiscono delegare allo stato l’amministrazione dei beni comuni da dare in concessione retribuita alle imprese private, perché nessuno (con la propria piccola quota) può ottenere il vantaggio competitivo che ha lo stato sul mercato, in rappresentanza di tutte le quote.

Nello stato democratico partecipativo le entrate per le spese pubbliche pervengono, senza alcuna possibilità di evasione fiscale, dalla gestione statale diretta dei beni comuni con prelievi alla fonte pubblica, rappresentata dalle concessioni ai privati. Pertanto le entrate allo stato sugli utili dei beni comuni sostituiscono le entrate fiscali. La fiscalità pubblica a carico del cittadino può così cessare senza danno per la spesa pubblica, e lo stato può garantire ogni reddito esentasse per le attività economiche, sia pubbliche sia private.

Lo stato, amministratore dei beni comuni, ha anche il dovere di svolgere la funzione di regolatore dei prezzi delle merci sul mercato, a favore del potere d’acquisto dei cittadini, perché, contrattando concessioni retribuite, può aumentare o diminuire il prezzo delle materie e delle energie primarie alle imprese private, produttrici di merci.

La regolazione dei prezzi oggi sarebbe salvifico per il potere d’acquisto di tutti i cittadini, dato l’aumento esponenziale dell’inflazione e del valore delle materie prime nelle borse speculative, con ricadute insostenibili (per le famiglie e per le imprese che sono al tracollo) sulle bollette energetiche.

Gli utili dello stato, ricavati dai beni comuni naturali, provengono dalle concessioni minerarie, dalle concessioni edilizie del suolo, dalle concessioni balneari, dalle concessioni di qualsiasi bene comune prodotto dalla natura e non dall’uomo.

Nel caso delle concessioni balneari, che possiamo assumere come esempio, l’ente pubblico concede (dietro compenso) all’impresa privata balneare la spiaggia e ovviamente quanto integra la spiaggia, ossia il mare, il sole, la brezza marina etc., tutti beni prodotti dalla natura e non dall’uomo e dunque appartenenti a tutti.

I beni comuni offerti dall’ente pubblico in concessione retribuita all’impresa balneare sono offerti al godimento privato del turista pagante. Quest’ultimo gode dei beni comuni della natura ma gode anche del lavoro privato dell’imprenditore col servizio di salvataggio, di ombrellone, di sdraio, di cabina, di pulizia della spiaggia, e così via. L’ente pubblico, per la concessione della spiaggia come bene comune pubblico, può pretendere dall’imprenditore fino a metà di quanto l’imprenditore guadagna dai turisti, e ha l’obbligo di trasformare le risorse incassate in servizi pubblici di welfare gratuito per i cittadini, azionisti del bene comune. L’imprenditore privato a sua volta può guadagnare la restante metà del pagamento dei turisti, ma al netto ed esentasse, perché pagando la concessione all’ente pubblico ha già versato quanto necessario alle spese pubbliche per fornire servizi gratuiti ai cittadini, ovvero fino al 50% dei suoi guadagni. In pratica ha così già pagato il suo contributo fiscale allo stato.

D.5 La democrazia partecipativa dei beni comuni contempla la piena occupazione?

R.5 Lo stato con le sue entrate e le sue spese deve provvedere all’adempimento di tutti i diritti costituzionali inviolabili della persona, specie se essenziali alla sua vita, come il prioritario diritto al lavoro per ogni cittadino (Articolo 4 della Costituzione). Il padre del welfare moderno, William Beveridge, rettore ad Oxford, forse il più eminente esperto liberale europeo di assicurazione sociale, presentò (su incarico del governo Churchill) un piano per uscire dagli immani disastri della guerra col suo rapporto “Full Employment in a Free Society” del 1944.

Il piano di welfare, ideato da Beveridge, prevedeva piena occupazione produttiva in una società libera di mercato, in cui lo stato liberale doveva attuare nell’economia interventi di ispirazione keynesiana, con investimenti pubblici che perseguissero il fine della piena occupazione. Ogni cittadino, in verità, dovrebbe disporre di un reddito sicuro da lavoro per vivere dignitosamente. Il vantaggio della piena occupazione oltre che individuale è sociale, perché, se tutti i cittadini sono occupati e lavorano, contribuiscono al maggior sviluppo della ricchezza nazionale, che in maniera circolare moltiplica il benessere sociale diffuso conseguente alla liberazione di tutte le forze produttive.

Lo stato di una democrazia partecipativa ha ampie risorse da investire al fine di perseguire la piena occupazione, perché amministra tutti i beni comuni dei cittadini, i beni prodotti dalla natura, da cui è possibile ricavare risorse miliardarie, se consideriamo le categorie di materie prime e di energie primarie quotate in borsa.

Lo stato può amministrare le materie prime più rilevanti che abbiamo in natura e che lavoriamo per produrre beni finali, ricchezze del mercato finanziario nelle varie categorie, vegetali (tipiche di attività agricole, semi delle varietà primarie, frumento, mais, soia, cacao, caffè, tabacco, zucchero, oli vegetali, etc.), animali (corrispondenti alle attività di allevamento, dalle carni al latte), metalli preziosi (dall’oro al platino, dall’argento al palladio), metalli industriali (dall’alluminio al rame, dallo zinco allo stagno, dall’acciaio al nichel), legnami (dalle potature da fuoco ai legni nobili per mobili e costruzioni ), tessili (dal cotone alla seta), minerali (da quelli organici, come l’ambra, a quelli inorganici, come i diamanti).

Inoltre lo stato può amministrare le energie primarie prodotte dalla natura sia come fonti energetiche esauribili, per lo più fossili (dal carbone alla lignite, dal petrolio al gas naturale, ai combustibili nucleari,) sia come fonti energetiche rinnovabili (dall’acqua al sole, dal vento alle biomasse, dalla geotermia ai campi elettromagnetici). Essi costituiscono tutti beni primari che l’uomo non ha prodotto e rappresentano beni comuni della natura di cui tutti i cittadini sono azionisti.

Lo stato può guadagnare enormi utili come fornitore sul mercato di tutte le materie prime ed energie primarie prodotte dalla natura, necessarie a tutte le attività private produttive, le quali (attraverso il lavoro umano) trasformano materie ed energie primarie in beni e servizi finali, che, posti sul mercato come merci, rendono enormi profitti finali. Con tali proventi i privati possono retribuire lo stato che provvede a tutte le spese pubbliche, soprattutto a un welfare di sicurezza sociale integrale e gratuito, senza più porre alcun gravame fiscale ai cittadini.

Materie prime pubbliche e lavoro umano privato, tra loro correlati per la produzione di beni e servizi finali, sono i due pilastri che concorrono alla ricchezza complessiva del PIL nazionale. Dalle forniture di materie prime ed energie alle imprese private lo stato può ricavare potenzialmente fino alla metà del valore del PIL nazionale, una cifra di migliaia di miliardi da investire interamente in welfare integrale gratuito a favore dei cittadini, tra cui soprattutto la piena occupazione.

Con le sue entrate miliardarie lo stato può provvedere ad un piano di piena occupazione, assumendo tutti i cittadini maggiorenni come dipendenti pubblici, senza ricorrere alla copertura della fiscalità pubblica che aumenta il debito, ma sotto la copertura degli stessi ricavi di gestione dei beni comuni (materie prime e fonti di energia), che appartengono ai cittadini, i quali di fatto danno allo stato i loro dividendi per avere in contropartita un posto di lavoro pubblico.

Il lavoro pubblico di piena occupazione (che i cittadini finanziano allo stato con i loro diritti da concessioni d’uso dei beni comuni ai privati) è comunque più appetibile e preferibile alla riscossione dei dividendi monetari. Invero i dividendi si esauriscono presto, se non sono generati dal lavoro produttivo che trasforma le materie prime in ricchezza, da cui si generano nuovi dividendi.

I beni comuni, materie prime ed energie naturali, senza la valorizzazione del lavoro, non danno dividendi. Il lavoro dei dipendenti pubblici non sarà solo dedicato ai servizi, ma lo stato imprenditore avvierà anche la produzione di beni di impresa collocabili sul mercato, ottenendo ulteriori utili per le entrate pubbliche al fine di nuove assunzioni, divenendo moltiplicatore della ricchezza nazionale.

Ampliare la platea degli occupabili è possibile allo stato perché ormai entrano nelle catene di produzione anche le tecnologie robotiche che fanno risparmiare di due o tre volte il tempo di produzione, mentre raddoppia o triplica il profitto di impresa. Quindi è possibile (a parità di salario) adottare per i lavoratori la settimana corta di 30 ore dal lunedì al venerdì e il mese corto anche di due settimane su quattro, assumendo nuovi lavoratori sulle ore di lavoro che si liberano e retribuendo i lavoratori con gli extraprofitti consentiti dalle tecnologie robotiche agli imprenditori. Questi ultimi sono comunque favoriti perché ricavano utili esentasse che raddoppiano i loro guadagni rispetto al passato.

In tal modo i lavoratori pubblici possono aumentare di numero lavorando per meno tempo, con uno stipendio pari ad un reddito di base di livello medio, comunque sufficiente a mantenere se stessi e le loro famiglie, considerando il benessere diffuso, data la piena occupazione in cui anche il coniuge e i figli maggiorenni lavorano.

Poiché i lavoratori pubblici si troverebbero così ad avere la settimana corta e il mese corto, sono incentivati dallo stato ad integrare (dato l’ampio tempo disponibile) i loro guadagni con un lavoro privato da imprenditore o da autonomo o da dipendente, con un reddito privato cumulabile con quello pubblico.

L’incentivo al lavoro privato è promosso dallo stato che aiuta il lavoratore all’individuazione iniziale di un settore di impresa promettente per cui il lavoratore abbia competenze ed interessi. Appositamente lo stato fornisce la conseguente formazione gratuita, dando a fondo perduto il primo capitale di rischio ed anche coperture assicurative in caso di difficoltà per l’aleatorietà del mercato privato, onde poter facilmente attivare una mobilità verso altri settori.

In breve il lavoratore è collocato alla piena occupazione in ambiti distinti: da un lato in attività pubblica, dove consegue una stabile sicurezza sociale con ruolo a tempo indeterminato e con un reddito medio da lavoro garantito; dall’altro in attività privata, dove può raggiungere redditi e cariche superiori, oltre che aspettative di ascesa sociale crescente sia in attività creative e che in termini di responsabilità, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro svolto. Il lavoratore condividerà la situazione di rischio dell’impresa e l’insicurezza del lavoro sul mercato privato competitivo ed innovativo, seppure con la copertura assicurativa di mobilità verso altro settore efficiente, in caso di insuccesso.

*già Preside della Facoltà di Scienze Sociali dell’Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti-Pescara

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