La scuola come azienda

di Marco Tabellione

L’aziendalizzazione della scuola e la tendenza a riassorbire il sistema educativo nella congerie delle organizzazioni di tipo manageriale e industriale o post-industriale è ormai un dato di fatto, una certezza progettuale indiscutibile, una meta che sembrerebbe eresia non perseguire. Ma tali evoluzioni, a ben vedere, che si sono innescate dalla creazione dell’autonomia scolastica in poi, non sono poi così scontate né auspicabili. Anzitutto sembra che la scuola abbia smarrito il fine della sua missione educativa, che dovrebbe essere appunto l’educazione, cioè la fase più controllata e direzionata di quello che possiamo definire come un cammino di civiltà. A proposito di educazione, Giambattista Vico nella Scienza nuova esalta la religione, per i suoi scopi anche civili, e perché essa, la religione, ha da sempre sacralizzato l’istituzione del matrimonio, costringendo in un certo qual modo i genitori a preoccuparsi, come impegno religioso e spirituale, dell’educazione dei figli, e di conseguenza della propagazione della civiltà.

Non citiamo Vico in difesa della sacralità della famiglia e del matrimonio, citiamo in questo caso Vico per mostrare il lato sacro dell’educazione. Ma cosa vuol dire educazione? Come indica la stessa parola, educare vuol dire innanzitutto guidare (dal duco-ducis latino) cioè condurre. Ma quando ci si preoccupa di condurre qualcuno e di guidarlo, non ci si rivolge a lui come ad un mezzo, bensì come ad un fine. Etimologicamente e-duco dovrebbe significare “conduco fuori”. Conduco fuori cosa e da dove? Forse Socrate qui ci può soccorrere quando vedeva sé stesso come una specie di ostetrico (era il mestiere della madre), ostetrico che tira fuori la sapienza direttamente dal discente. Sappiamo che il modo di operare di Socrate non era di tipo impositivo, perché il filosofo, considerato inventore della morale, mirava a ricavare direttamente dal discepolo l’idea di sapienza e dunque di civiltà.

Così se educare vuol dire condurre fuori, cioè consentire alla persona di uscire fuori da sé, dunque di esprimersi, è evidente che in questo processo chi riceve l’educazione e la formazione non va trattato come mezzo, ma come fine. Il fine quindi della scuola dovrebbe essere lo stesso alunno, e ciò, a ben vedere, risulta ovvio. Sennonché l’organizzazione aziendale della scuola ha distrutto proprio questo processo, trasformando tutti, non solo gli alunni, ma anche docenti e personale in strumenti.

Strumenti di cosa? Difficile dirlo con precisione, sicuramente di una idea di umanità che oggi sembra andare per la maggiore e vede nel miglioramento degli strumenti e degli apparati che utilizziamo nella nostra esistenza il suo scopo precipuo. Sembra quasi un’ossessione, il mercato ne è saturo, l’industria ci si butta a capofitto, e alla scuola si chiede di preparare i futuri programmatori di questi strumenti, o quanto meno di confermare questa idea di umanità, il cui progresso si giudica a partire proprio dagli apparati che utilizza. Competenze e abilità, per quanto sacrosante da un punto di vista delle conoscenze applicative, sono infatti diventate gli obiettivi primi della scuola di oggi, cioè saperi procedurali che si sono sostituiti allo scopo dell’affinamento delle coscienze; quando, invece, l’affinamento dovrebbe essere al centro di una scuola capace davvero di e-ducare, cioè di portare fuori l’individualità dei ragazzi, e perciò di stimolare la formazione del pensiero critico, divergente, autenticamente creativo.

La sapienza ridotta dunque a strumento dell’industria contemporanea, questo il succo degli obiettivi della scuola odierna, anch’essa chiamata a lavorare sui mezzi considerati come fini e a strumentalizzare, cioè a ridurre a mezzi, i destinatari del processo educativo. L’ossessione per gli strumenti e per le applicazioni è stata più volte contestata dalla letteratura di tutti i tempi. “Cercare direttamente la felicità non gli strumenti della felicità” sostiene Dostoevskij nel finale del racconto Il sogno di un uomo ridicolo, e Seneca ribadisce più volte lo stesso concetto in uno dei primi libri delle Lettere a Lucilio, in cui critica quelli che lui chiama gli affaccendati concentrati sui presunti mezzi della felicità, ma non sulla felicità in sé. Ma idee simili le possiamo trovare espresse numerose nel corso dei secoli e dei millenni; ad esempio in Sant’Agostino quando nelle Confessioni definisce la sapienza come pietà; o ancora Vico il quale su questo binomio, sapienza e pietà, conclude il citato capolavoro La scienza nuova. Ma che vuol dire binomio sapienza-pietà e perché la scuola oggi non sembra praticare questa idea? Se consideriamo la pietà etimologicamente, cioè come pietas, ci accorgiamo che la pietas presso i latini era legata al senso dell’altro, incarnato nelle istituzioni della famiglia, della religione e dello Stato. Un sentimento che va coltivato mediante il ritorno ad una idea etica dell’apprendimento, basata sulla cura dell’interiorità e della personalità.

Dopo esperienze come quelle di Don Milani e della Montessori, e anche del maestro Manzi che si rifiutava di mettere i voti, ci si sorprende ancora una volta a scoprire nella meritocrazia a tutti i costi, solo una versione ammorbidita della vecchia raccapricciante idea pseudo-nietszchiana che la cultura possa ammettere l’esistenza di vincitori e gerarchie. La scuola della selezione e del merito, la scuola che mira a standardizzare e a strumentalizzare un po’ tutto: sapere, persone, anime, vite; questa sarebbe la scuola del futuro. Una scuola che verrebbe voglia invece di lasciarsi alle spalle, ma che purtroppo continua a imperversare e a tramandare la barbarie di una civiltà del controllo e della eccessiva razionalizzazione. Sappiamo che a monte di questa barbarie c’è il predominio della tecnica e delle scienze applicate, le quali hanno schiavizzato cultura, conoscenza e ricerca in nome di un’idea in cui il sapere deve “servire”, cioè farsi servo. È possibile oggi, umanamente, poter esprimere almeno un dubbio su un simile processo?

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