I perché di un non voto – L’autonomia del Nord

I perché di un non voto – L’autonomia del Nord

di Pasquale Sofi

 Certamente l’espressione di un voto vuole significare il bisogno, affermato nel segreto dell’urna, dell’elettore di affidare a una compagine governativa la garanzia che il proprio progetto di vita segua canoni funzionali al benessere suo e dei suoi cari.

In quest’ultima tornata elettorale, a dimensione regionale, ciò non mi è sembrato potersi realizzare, poiché qualsiasi espressione di voto io avessi manifestato si sarebbe rivelata dannosa, non solo per me, ma per la comunità regionale tutta. Motivo di questo impedimento è da identificare nell’operazione silente, quasi da congiura, che la politica italiana sta portando avanti. Si sta infatti minando l’unità nazionale a favore delle regioni ricche del Nord che cercano di ottenere una forma di secessione mascherata, chiamata autonomia regionale differenziata. Un’operazione di gran lunga peggiore di quella che Bossi minacciava negli anni Novanta!

Chi avrei potuto votare? La Lega no di certo! Essendo vissuto tanti anni al Nord e nel periodo della sua formazione, ne conosco bene gli scopi fondativi (generati dal pregiudizio diffuso e dal razzismo ancestrale verso il popolo meridionale). E nemmeno il Movimento 5 Stelle. Se, infatti, il disegno autonomista della Lega andrà in porto, ciò avverrà con il suo essenziale contributo. Tale Movimento, che annovera anche gente onesta e di valore, è inoltre rappresentato da personaggi eccessivamente ambiziosi (li immaginate, voi, Conte e Di Maio, dimissionari che fanno cadere il Governo? Io no); e diffido soprattutto di chi li guida: un milanese e un genovese. E poi, ammesso anche che i pentastellati, ispirati – o pressati! – dalla base, decidessero di porre fine all’esperienza governativa (perché il non firmare l’accordo ne sarebbe la logica conseguenza, parole del leghista Giorgetti), ci sarebbe da considerare il ruolo di Forza Italia. Essa sarebbe sicuramente pronta ad accogliere il ‘figliuol prodigo leghista, e, finalmente, ad accontentare le velleità di una forza che grazie ai creduloni ma ignoranti elettori del Centro-sud viaggia con il vento in poppa.

Sembrava dunque una via obbligata quella di votare il candidato del PD. Anzi, pensavo che Legnini avrebbe sbaragliato il campo se solo avesse denunciato il turpe disegno della Lega, portato avanti con il silenzio tombale di tutti gli attori della politica e con la complicità delle testate giornalistiche nazionali più importanti. Unica eccezione a questo assordante silenzio, Il Messaggero che, a partire dal mese di luglio dello scorso anno, ha pubblicato una serie di editoriali sull’argomento, a firma dell’economista e docente universitario Giancarlo Viesti (autore del volume Verso la secessione dei ricchi, pubblicato da Laterza, ma disponibile anche online gratuitamente, e della petizione https://www.change.org/p/gianfranco-viesti-no-alla-secessione-dei-ricchi). Ai lavori di Viesti ha fatto seguito su Il Fatto Quotidiano, solo il 7 febbraio di quest’anno, un pregnante e denso articolo a firma di Valentina Petrini, dal titolo Autonomia sì. Ma solo per i ricchi.

Torniamo però alla consultazione elettorale abruzzese e al candidato Legnini (non prendo in considerazione Casa Pound per mia naturale idiosincrasia verso i partiti estremisti). Per settimane attendo che l’ex vicepresidente del CSM nel corso dei suoi incontri, sui social o attraverso i siti internet, sveli il funesto disegno che le regioni ricche del Nord stanno elaborando a scapito anche della regione che lui ambisce a guidare. Passano però i giorni e alla questione dell’autonomia regionale nessun cenno. Comincia quindi a prendere forma un dubbio feroce: che quella di Legnini sia una candidatura a perdere! Non essendo possibile che il vice presidente del CSM non sia al corrente della ‘tresca’, il suo silenzio vuol dire complicità. Ciò significa, contestualmente, che egli sia candidato volontario alla sconfitta! Mi sono anche peritato, per ben due volte, di scrivere un post di denuncia sul suo profilo Facebook, ma entrambe le volte mi è stato cancellato. Qualche giorno dopo, però, comincio a comprenderne la ratio. Sempre sul solito Messaggero leggo che alla fine di febbraio dello scorso anno un sottosegretario del governo Gentiloni, tale Bressa, aveva firmato con i tre governatori interessati (di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) un pre-accordo sulla famigerata autonomia che arricchisce ulteriormente le regioni già ricche e rende più povere quelle già povere. E va sottolineato che il governo regionale dell’Emilia-Romagna, una delle regioni ‘secessioniste’, è a guida PD! A questo punto mi è chiaro che qualsiasi voto io esprima sarebbe autolesionistico. Da qui la decisione di non andare a votare.

Provo adesso a spiegare come i ‘seguaci del Nord’ stiano ingannando il resto dell’Italia, sfruttando l’art. 116 della Carta Costituzionale.

Le succitate regioni (che stanno per essere imitate da altre meno ricche ma comunque agiate, come Piemonte e Toscana in primis) hanno stilato un lungo elenco di richieste su materie fino ad oggi di esclusiva competenza legislativa dello Stato. Tra di esse, ad esempio, l’Istruzione o la Sanità che da beni pubblici nazionali si trasformerebbero in beni pubblici locali. Il Lombardo-Veneto, in particolare, vorrebbe esercitare funzioni tipiche dello Stato su ben 23 materie, configurando così una vera e propria secessione. Le forti perplessità riguardano il trasferimento delle risorse necessarie a finanziare le eventuali competenze regionali aggiuntive, a scapito delle regioni più povere del Sud. Ma, per essere ancora più espliciti, il cuore del problema risiede nel cosiddetto residuo fiscale, cioè nel differenziale tra quanto pagato in tasse dalle Regioni e quanto ricevuto in termini di servizi dallo Stato, che ognuno calcola pro domo sua. Ebbene, le regioni ricche del Nord non solo vorrebbero trattenerlo integralmente per sé, ma vorrebbero anche scaricare sul Centro-sud gli interessi per il debito pubblico che lo Stato paga annualmente.

È vero che, in ossequio al dettato costituzionale, devono essere garantiti uguali diritti ai cittadini su tutto il territorio nazionale previa determinazione di fabbisogni standard e in regime di costi standard (che però ad oggi non sono mai stati calcolati). Ma anche su questa operazione perequativa, che sarebbe di esclusiva competenza dello Stato, le regioni ‘secessioniste’ vorrebbero esercitare il loro controllo. Purtroppo sembra che le regioni del Centro-sud stiano facendo a gara per porre in essere atteggiamenti autolesionistici. Votati al suicidio, invece che produrre ricorso alla Corte Costituzionale, invece di denunciare l’iniquità dei livelli dei fabbisogni strutturali tra le regioni del Nord e quelle del Sud, invece di chiedere contestualmente al Tribunale Europeo dei diritti dell’uomo il riequilibrio del gap infrastrutturale esistente tra Nord e Sud dell’Italia, che cosa fanno i governatori di Puglia Campania e Lazio (che merita tuttavia un discorso a parte)? Intendono chiedere anch’essi l’autonomia! Mica si rendono conto che la loro sarebbe una partenza ad handicap, capace solo di produrre un décalage sempre più ampio nel tempo! Posso capire che l’orgoglio territoriale possa spingere ad accettare le sfide che l’autonomia potrebbe stimolare, ma occorre prendere atto che non si tratterebbe mai di una competizione ad armi pari. Appunto per il suddetto consistente divario infrastrutturale. Cominciamo invece a non credere ai facili entusiasmi e a respingere affermazioni ottimistiche quali: “non ci sarà un euro in meno per nessuno”, oppure “non ci saranno cittadini di serie A e di serie B”. Falsità! Aria fritta! Le cose stanno ben diversamente: per il primo anno la spesa storica sarà confermata, ma già dal terzo anno andrà a regime la spesa generata dai fabbisogni perequativi decisi dalle regioni più ricche. Pertanto, a mio parere, occorre fare quadrato: le regioni ‘povere’ ovvero quelle con residuo fiscale negativo (Umbria, Lazio*, Sardegna, Abruzzo, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia) dovrebbero mettere da parte i particolarismi e fare fronte comune, cominciando a non consumare, utilizzare o impiegare nulla di ciò che non provenga dalle citate regioni povere. Inoltre, con feroce rigore, cominciamo a far funzionare bene le istituzioni, rigettando i mali ancestrali del Centro-sud. Facciamo crescere il senso civico, ripudiamo favoritismi e raccomandazioni e denunciamo qualsiasi forma di corruzione! Infine, incentiviamo e mettiamo in rete la ricerca scientifica. Ovviamente, per realizzare tutto ciò sarebbe necessaria una nuova dimensione politica, che porti a ripudiare i partiti storici e attuali e a sposare una nuova causa comune. Essa deve coincidere con il RISCATTO DEL SUD, partendo dalla richiesta ferma di un riequilibrio del gap infrastrutturale con il Nord. Ma qui si rivela la vera differenza tra la gente del Nord e quella del Sud. Riuscite a vedere, accanto all’insieme degli opportunisti, voltagabbana, cambiacasacca e simili, la moltitudine di ingenui, creduloni o scettici capaci di ripudiare le posizioni acquisite, per sostenere una causa nuova, come hanno fatto per quasi trent’anni i leghisti del Nord? Io non ci riesco.

* Il Lazio sarebbe incluso nella lista se si escludesse il residuo fiscale della città di Roma che fino ad oggi è stata governata amministrativamente e fiscalmente alla stregua di una regione a sé stante. Provate ad immaginare cosa sarà e quale forza potrà avere la Capitale d’Italia spogliata, nei suoi Ministeri, delle funzioni più importanti. Ho omesso di inserire nella stessa lista la provincia autonoma di Trento.

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