Nella morsa della Giustizia
(resto dell’undicesimo capitolo)
di Domenico Di Carlo
GLI INTERROGATORI
(…) Puntuali, il 28 marzo Stefano e Lorenzo si presentarono in caserma.
Il primo interrogato fu Lorenzo, mentre al suo amico fu detto di aspettare in un angusto corridoio dove nessuno sembrava avere abbastanza tempo anche solo per indirizzargli un sorriso.
«Si accomodi e declini le generalità all’appuntato, poi risponda alle mie domande,” disse Parenti.
Fatto ciò che era stato richiesto, Lorenzo attese l’inizio dell’interrogatorio vero e proprio.
«Da quanto tempo conosce la vittima?»
«Ero amico di Patrizia sin dagli anni del liceo. Io, lei e Stefano eravamo un gruppetto molto affiatato.»
«Può specificare meglio cosa intende dire con la definizione “affiatato”?»
«Intendo dire che oltre allo stare insieme nell’orario scolastico e vederci per studiare per prepararci alle verifiche, ci frequentavamo anche nel tempo libero, specialmente per la palestra e per il teatro. Insieme coltivavamo anche l’hobby della pittura, cosa nata quasi per caso: il padre di Patrizia non è solo docente di scultura e pittura dell’Accademia di Belle Arti, ma anche critico d’arte; quindi, talvolta ci insegnava il mestiere dandoci importanti consigli.»
«Può dirmi dove era il 7 settembre scorso?»
«Ricordo che il 7 settembre dell’anno scorso, io e Stefano siamo andati al seminario di diritto parlamentare, per seguire le ultime lezioni prima dell’inizio degli esami. In quell’occasione Stefano mi disse che suo padre, imprenditore edile e amico del presidente della Fiorentina, aveva ricevuto in dono da quest’ultimo tre biglietti per andare a vedere la partita, così da poterci portare anche la famiglia. Sua madre però, detesta il calcio, per cui aveva un biglietto disponibile e la partita era contro la Roma, mica una squadra qualunque! La partita si sarebbe disputata alle venti e trenta allo stadio comunale Franchi e la ciliegina sulla torta è stata che saremmo andati con la macchina del padre, non potevo assolutamente rifiutare. Accettai l’invito. Alle diciannove e trenta Stefano e suo padre vennero a prendermi sotto casa per andare tutto insieme allo stadio.»
«A che ora è rientrato?»
«Se non mi sbaglio, mi hanno riaccompagnato a casa intorno una mezz’ora prima di mezzanotte.»
«Capisce bene che abbiamo bisogno di prove. Ha ancora il biglietto della partita in questione?»
«Per fortuna, dato che era una partita che mi aveva particolarmente emozionato, conservo ancora la matrice del biglietto, solo come può bene immaginare, è a casa mia, ma posso fornirgliela senza problemi.»
A quel punto, cambiando quasi repentinamente argomento, dato che ormai il maresciallo stava diventando sempre più convinto dell’estraneità ai fatti di Lorenzo, Parenti estrasse da un cassetto una foto e la pose sotto lo sguardo del giovane: «Conosce qualcuna delle persone immortalate in questo scatto?»
«Riconosco Sergio Cancellieri e un certo Giulio di cui non conosco il cognome, però so che abita in provincia di Arezzo. Io e Stefano non li frequentiamo, ma so che erano amici di Patrizia, quindi ogni tanto abbiamo intrattenuto qualche breve conversazione con loro, giusto per cortesia.»
«Come è venuto a conoscenza della scomparsa della sua amica?»
«Intorno la mezzanotte del 3 settembre, ho ricevuto una telefonata a casa mia da parte di Rossella, la madre di Patrizia, che mi chiedeva se avessi avuto notizie dato che Patrizia non si era fatta sentire, mentre di solito avvisava sempre, anche noi amici! Purtroppo non sapevo nulla, quindi l’unica cosa che le avevo potuto dire era che né io, né Stefano avevamo visto Patrizia a lezione, però ci eravamo premurati di prenderle le dispense del professore e gli appunti perché le sarebbero sicuramente tornati utili.»
Dopo qualche secondo di silenzio preso per riflettere, talmente ingombrante da riempire la stanza in modo quasi opprimente, finalmente Parenti si decise:
«Bene, direi che è sufficiente! Però resti seduto per favore,» detto ciò, chiese all’appuntato di far accomodare nella stanza Stefano Cortesi. Una volta entrato, lo fecero accomodare vicino al suo amico.
«Dia le generalità all’appuntato,» questa volta il maresciallo voleva provare un approccio diverso: «Cortesi, ora le leggerò le dichiarazioni rese dal suo amico Lorenzo; al termine lei mi dirà se intende aggiungere o modificare qualcosa o se conferma quanto da lui dichiarato.»
Dopo un attento ascolto, l’interrogato confermò senza ombra di dubbio quanto già detto dall’amico, aggiungendo che anche lui era ancora in possesso della matrice del biglietto per la partita in questione.
I due giovani avevano un alibi di ferro. Era inutile insistere su di una pista così sterile, inoltre anche a pelle i due gli sembravano bravi ragazzi, difficile immaginarli mentre accoltellavano l’amica senza alcun movente apparente, senza considerare il far passare mesi senza venire divorati dai sensi di colpa.
«Ragazzi potete tornare a casa. Se venite a conoscenza di qualunque fatto inerente al caso, ricordatevi che dovrete informarmi con la massima sollecitudine,» concluse il maresciallo.
Così i due si alzarono, salutarono con garbo Parenti e l’appuntato e con passo veloce lasciarono la caserma come liberati da un grosso peso, sperando di non doverci tornare in breve tempo e di essere stati, nel loro piccolo, d’aiuto per le indagini.
Il 2 aprile il quotidiano “La Nazione” pubblicava fra le prime pagine un articolo del giornalista Marco Corsi, in cui denunciava il fatto che erano trascorsi ormai dei mesi dall’omicidio della studentessa e gli inquirenti non avevano in mano una briciola di prova o qualche indizio, sembravano non solo brancolare nel buio, ma essere anche presi da una strana indolenza. Chiedeva apertamente a cosa fosse dovuta tutta questa lentezza, sollevando l’attenzione sull’eventualità che la polizia fosse lontanissima da qualsiasi idea anche solo lontanamente degna di essere definita come una pista. Il giornalista metteva anche il dubbio sull’eventualità che, al contrario, le indagini stessero seguendo il giusto percorso, ma che fosse costellato da ostacoli che non potevano essere smossi, forse c’erano degli interessi non indifferenti in gioco.
La cosa su cui però Corsi era convinto, era che qualsiasi fosse la motivazione per questi rallentamenti, Patrizia meritava giustizia e non si poteva di certo aspettare per sempre.
L’articolo arrivò agli uffici della Procura e, com’era naturale, suscitò la reazione del procuratore, il quale minacciava di non dare più udienza ai giornalisti, colpevoli di criticare cinicamente, senza conoscere in profondità la complessità delle indagini e dei processi.
Campana convocò Parenti per avere un ragguaglio sullo stato delle indagini, pensando di rimproverarlo duramente, ma questi si relazionò puntualmente e con esattezza, tanto che il procuratore non poté fare a meno di formulare un giudizio sostanzialmente positivo per il lavoro svolto.
Rimanevano ancora tre persone da interrogare, tutte le loro speranze erano riposte in questi tre individui.
Il 10 aprile fu la volta di Giancarlo Vitelli, titolare del bar-ristorante. Si presentò in caserma, entrò nell’ufficio di Parenti e lo salutò con un sonoro e gentile «Buongiorno!» pieno di vita e di buon umore, atteggiamento che non scalfì neanche per un secondo la corazza di Parenti, già estremamente concentrato per la sua convinzione che Vitelli nascondesse qualcosa e voleva andare a fondo. Raramente il suo sesto senso sbagliava.
«Si accomodi e dia le generalità all’appuntato,» subito iniziò l’interrogatorio vero e proprio senza nessuna forma di cortesia.
«Dove e quando ha acquistato il kit di coltelli che ho personalmente requisito dal suo locale?»
«Ho comprato il kit da sei coltelli di marca “Sanelli”, se non sbaglio quattro o cinque anni fa, in un negozio di utensilerie e coltellerie di Firenze.»
A questo punto, il maresciallo aprì un plico da cui estrasse un’immagine: «Per caso il coltello, che mancava nel suo kit, è in quello che vede in questa foto?»
«Tra quelli acquistati c’era anche lo stesso modello di quello che vedo in foto.»
«Mi saprebbe dire dove è quel coltello specifico allo stato attuale?»
«Quel tipo di coltello non è più utilizzato. Da un po’ nella mia cucina è stato sostituito da uno equivalente perché l’aiutante cuoco, mentre stava tagliando una lombata di vitellone, con un osso aveva scheggiato irrimediabilmente la lama. Se non sbaglio, venne smaltito nei rifiuti solidi urbani.»
Parenti non era completamente soddisfatto della risposta, voleva controllare la testimonianza chiedendo conferma sia al cuoco che all’aiuto-cuoco. Decise di mostrargli la stessa foto fatta vedere in precedenza all’amico di Patrizia: «Conosce qualcuna delle persone che vede in questa foto?»
«Sì, riconosco Sergio e il suo amico Giulio. Frequentano abitualmente il bar, talvolta si fermano a pranzo o a cena, lasciano delle belle mance a dire la verità, sembrano simpatici.»
«Li ha mai visti in compagnia della vittima?»
«Sì, spesso venivano tutti e tre insieme, anzi, a ricordare bene furono proprio loro a presentarmela. Il locale piacque tanto a Patrizia che poi decise di venirci anche con altri amici. Comunque credo che fosse, ma non ne sono sicuro, la fidanzata… o l’amica intima… non conosco la terminologia dei tempi d’oggi… di quel Giulio.»
«Bene, rileggete e se trovate tutto corretto, firmate il verbale, così potete andare, non vorrei avervi fatto perdere troppo tempo,» disse Parenti in modo talmente inaspettato da far trasalire sia Vitelli che l’appuntato. Un’idea gli era balenata in testa e sentiva che la pista del ristoratore non lo avrebbe portato da nessuna parte. Finalmente aveva avuto un’informazione che avrebbe potuto dare la svolta decisiva alle indagini: forse Patrizia aveva un fidanzato, il cerchio delle indagini si stringeva sempre di più.
Il 20 aprile, fu il turno di Sergio Cancellieri di varcare la porta della caserma. Accompagnato dall’appuntato di servizio, entrò nella stanza del maresciallo, ancora illuminata dagli ultimi raggi di sole che penetravano dalle imposte socchiuse, nell’aria si sentiva il tepore gradevole d’inizio primavera.
Entrò allegramente, con il sorriso sulle labbra, un atteggiamento tipico di chi è sicuro di sé o di chi, al contrario, ha qualcosa di molto importante da nascondere.
Tutto faceva pensare che fosse il ragazzo perfetto a cui aspirare, un simbolo di giovinezza che non cedeva agli eccessi per divertirsi, tuttavia c’era una macchia fra le sue relazioni che sembrava mettere in dubbio questa teoria: l’amicizia con Valerio Mocci. Questi era un assiduo consumatore di droghe che, anche se da qualche anno non ne faceva più uso, talvolta non disdegnava di procurarsela per rivenderla a qualche amico e, tra le sue amicizie, c’era anche Sergio Cancellieri.
«Declini le generalità all’appuntato, poi risponda alle mie domande,» disse Parenti. Fatto il dovuto, il maresciallo iniziò la sequela di domande, senza mai lasciare lo sguardo dell’interrogato: «Conosce il proprietario de ‘Il Giglio’?»
«Sì, conosco Giancarlo Vitelli perché frequento da alcuni anni il suo bar-ristorante. È un luogo di ritrovo in cui mi trovo bene, ho piacere ad andarci spesso.»
«Solitamente con chi si reca a ‘Il Giglio’?»
«In genere vado con i miei amici più stretti, ovvero con Giulio Longarini, studente universitario di giurisprudenza di San Sepolcro e ci andavo anche con Patrizia Ghersi.»
«Lei e la signorina Ghersi eravate fidanzati?»
«No, Patrizia non era la mia fidanzata, lei frequentava Giulio. Neanche loro erano proprio fidanzati, forse potrei definirli meglio come amici intimi, non saprei ben definire…»
«La signorina Ghersi le ha mai parlato di minacce, strane persone che hanno cercato di farle del male, dissapori o cose del genere?»
«No, non ho mai sentito parlare Patrizia di situazioni del genere, ma non vuol dire che non possano essere accadute.»
«Come era il rapporto fra la vittima e Longarini?»
«Da qualche mese prima della sua morte, mi sembra di aver percepito una certa crisi sentimentale fra i due, da che ho capito lei desiderava una certa libertà, in senso positivo ovviamente, perché aveva tanti amici e interessi, era come se avesse la sensazione di avere le ali tarpate. Forse Giulio era geloso e non vedeva di buon occhio che avesse tante amicizie maschili, ma non saprei dirlo con precisione.»
«Mi parli meglio di questo Giulio.»
«Giulio è un ragazzo abbastanza introverso, probabilmente a causa della timidezza e non per egoismo o diffidenza verso gli altri. A volte è eccessivamente generoso, il suo carattere a dire il vero è molto difficile da inquadrare, è come se non si aprisse mai completamente con gli altri; vive a Firenze, insieme ad altri studenti universitari.»
«Sicuro che fra i due andasse tutto bene?»
«No, ma non ho mai assistito a un litigio fra Patrizia e Giulio. In una sola circostanza ho notato che discutevano animatamente perché lei era partita per Roma, con un gruppo di boy-scout della parrocchia, probabilmente di San Frediano, senza che Giulio ne sapesse niente.»
«Si ricorda quando è avvenuto questo fatto?»
«Se ben ricordo, dovrebbe essere avvenuto verso la fine di giugno dell’anno scorso.»
«Conosce Valerio Mocci?»
«Sì, è una mia conoscenza, ma è quasi un anno che non ci incontriamo. L’ho conosciuto proprio al bar-ristorante ‘Il Giglio’. Uno degli argomenti su cui tornavamo sempre a parlare era il calcio, dato che siamo tutti e due accaniti tifosi, lui della Fiorentina e io della Juventus.»
«Non avevate altri interessi in comune?»
«No, almeno non che io sappia.»
«Ci saprebbe dare un recapito telefonico di Giulio?»
«Ho il suo numero di telefono, è nella piccola rubrica che porto sempre con me, nel portafoglio.» La consultò e diede il numero di telefono con grande collaborazione.
Arrivò anche per Cancellieri la domanda fatale: «Dove era la sera del 7 settembre?»
«Così su due piedi, non ricordo che cosa ho fatto e neanche dove mi trovavo: dovrei consultare i miei appunti, forse ho scritto qualcosa nel diario giornaliero.»
«Allora consulti i suoi appunti. Dovrà fornirmi circostanze precise e chiare, servono prove concrete per confermare un alibi. Ci vedremo ancora tra due o tre giorni per aggiornarci, per allora mi aspetto qualche informazione più dettagliata in merito,» concluse Parenti.
Il maresciallo, dopo il colloquio con Campana, sentiva sempre più forte la necessità di chiudere le indagini di polizia giudiziaria. Così convocò in caserma Giulio Longarini la mattina per 30 aprile, per interrogarlo e riuscire ad avere più informazioni possibile; si sentiva fiducioso, forse con Longarini avrebbe definitivamente chiuso il cerchio delle indagini. (continua …)