DUE PESCARESI PROTAGONISTI DELLA GRANDE STORIA

MONTESILVANO.   I giovani non sanno, gli anziani non ricordano, ma il 1943 fu un anno cruciale, segnato da avvenimenti, che determinarono una svolta epocale nella storia del nostro Paese. In due di questi eventi furono coinvolti personaggi della nostra regione, addirittura della nostra Provincia. Gli eventi: la caduta del Fascismo il 25 luglio e la fuga del Re da Roma ad Ortona il 9 settembre.

I protagonisti: il barone Giacomo Acerbo di Loreto, ministro fascista ed il montesilvanese maresciallo dei carabinieri Vincenzo Agostinone. Il primo svolse un ruolo determinante nella vicenda, firmando l’ordine del giorno di Dino Grandi presentato in occasione del Gran Consiglio del Fascismo, per esautorare Mussolini; il secondo organizzò la fuga notturna del Re dal porto di Ortona.

Giacomo Acerbo era nato a Loreto il 25 luglio 1888; si era laureato in Scienze agrarie a Pisa nel 1912 e allo scoppio della Prima guerra mondiale, da acceso interventista vi partecipò con il fratello Tito, che purtroppo morì in combattimento. Al termine del conflitto ottenne 3 medaglie d’argento e congedato con il grado di capitano. E proprio per rendere omaggio alla memoria del fratello istituì (nel 1924) la famosa Coppa Acerbo, gara motoristica internazionale. Quell’anno fu insignito del titolo di Barone dell’Aterno, dividendosi fra politica ed insegnamento universitario. Nel 1929 fece realizzare la ferrovia elettrica Penne-Pescara (funzionerà fino al 1963), promuovendo un sostanzioso sviluppo economico dell’area vestina. Subito dopo l’arrivo degli Alleati, si nascose in campagna per evitare l’arresto come ex gerarca fascista. Processato, ebbe 48 anni di reclusione, ridotti poi a 30. Lo spedirono nell’isola di Procida, dove insegnò matematica ai detenuti. La sentenza fu annullata dalla Cassazione il 25 luglio del 1947. Riabilitato nel 1951, tornò all’insegnamento universitario. Morirà a Roma il 9 gennaio 1969.

Ottanta anni fa, nel 1943 appunto, presente con altri gerarchi del Regime, Acerbo votò l’ordine del giorno. Il gran consiglio del Fascismo era iniziato il 24 luglio alle 17,14 con l’apertura dei lavori dello stesso Mussolini. Alle 21 parlò Dino Grandi (conte di Mordano) da quel momento avversario del Duce. Seguirono interventi di Polverelli, Ciano (il genero di Mussolini) ed il celebre giurista De Marsico. Ci fu una sospensione di mezz’ora e qualcuno propose di rinviare la seduta al giorno dopo. Proposta bocciata, mentre nella sala girava il documento di Grandi. Su 28 presenti, lo firmarono 20 gerarchi fra cui il barone Acerbo, che pure era stato ministro del Regime. Alle 2,30 di notte iniziò la votazione: 19 avevano aderito al documento, 8 votarono contro ed 1 si astenne. In pratica Mussolini era stato fatto fuori ed i pieni poteri militari erano tornati al Re Vittorio Emanuele III. L’indomani Mussolini si alza di buon’ora per chiedere udienza al Re (prevista alle 17).

Sembra non dia peso all’ordine del giorno di Grandi e pensa di superare la crisi cambiando alcuni ministri. Invece il Re lo destituisce (sostituendolo con Badoglio) e lo fa arrestare dal capitano dei carabinieri Paolo Vigneri. È il 28 luglio ‘43: data storica che segna il crollo del fascismo. Gli antifascisti esultano. È la fine della dittatura.

Ed il maresciallo dei carabinieri Vincenzo Agostinone, nostro concittadino?

L’8 settembre del ‘43 Badoglio parla alla radio: sono le 19,42, quando interrompe la trasmissione della canzoncina “Una strada nel bosco” per annunciare che il governo italiano ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower, come dire che i Tedeschi diventano nostri nemici dall’oggi al domani. Badoglio è ambiguo e fra i nostri militari scoppia una drammatica confusione.

L’indomani 9 settembre alle 5,10 i regnanti si preparano a fuggire da Roma a bordo di una Fiat 2800 grigioverde, diretti a Pescara, con altre vetture al seguito, occupate da dignitari e generali. E questi ultimi abbandonano ignobilmente alla loro sorte migliaia di soldati italiani, diventati facile bersaglio dei Tedeschi. La comitiva fa una breve sosta all’aeroporto di Pescara dove i piloti rifiutano il “passaggio” a Sua Maestà, poi il trasferimento a Crecchio (Ortona) e la sosta nel castello della duchessa di Bovino, Donna Antonia De Riseis. Imbarazzo di quest’ultima davanti al principe Umberto che era venuto a chiedere ospitalità “per mio padre e mia madre” (sic). Non dice per le Loro Maestà! Alle 10,30 giunsero le altre vetture e a tavola si contarono 50 commensali!

Poco distante da Crecchio, ad Ortona il maresciallo dei carabinieri Vincenzo Agostinone prepara il trasferimento del Re, della Regina, del principe Umberto e dei dignitari al seguito, dal porto alla corvetta Baionetta, che aspetta a luci spente, a largo, l’arrivo degli illustri ospiti. Il maresciallo sveglia alcuni pescatori ortonesi, chiamati “per una missione” e questi con le loro motobarche “Anna”, “Dolie” e “Nicolina” traghettano in silenzio un centinaio di persone sulla corvetta Baionetta. Operazione facilitata dal mare decisamente calmo. I reali sono imbarcati sulla “Nicolina”, mentre Badoglio, già a bordo della nave militare (si era imbarcato a Pescara) precisa che potranno salire solo cento ospiti. Ed inspiegabilmente, fra loro, c’è una spia, un biondino, che parla benissimo l’italiano. Si tratta dell’anglo-senese (!) Cecil Richard Mallaby (per gli amici Dick), protetto dai nostri vertici miltari, come esperto rice-trasmettitore radio. Sul molo ci saranno scene di ressa, di persone che si accalcano per salire sulle motobarche. Chi resta a terra si allontana furtivamente e scompaiono anche le tante auto giunte poco prima sul molo. La “Baionetta” si dirigerà verso Brindisi, dove non si registrano presenze di Tedeschi. Vi giungerà l’indomani alle 10. Il maresciallo, fedele ai suoi ideali monarchici, antifascista dichiarato, ha compiuto la sua missione e torna a casa. Nei giorni successivi iniziano gli sfollamenti; il 19 dicembre la sua famiglia ripara in contrada Fosso Grande. La notte del 20 passano i militari tedeschi, che li ignorano. Il 21 si accampa in un capannone di un armatore ortonese, vicino al porto. Dopo pranzo il maresciallo in abiti civili (e non in divisa, come mi precisò la figlia Elda in un incontro nel 1998) esce per cercare (erano le 14,30) un posto migliore dove accamparsi, quando dalla parte alta di Ortona si udirono tre spari. Due o tre sfollati rientrarono trafelati nel rifugio, riportando all’interno il maresciallo colpito alle gambe. Perde sangue e l’emorragia si presenta inarrestabile. Non ci sono medici ed il povero Vincenzo, mantenendo una calma esemplare, sopravvive accanto alla moglie fino al 25 dicembre. Con il legname di alcune barche, gli sfollati preparano la bara. Straziata dalla morte del marito (deceduto a 43 anni), mamma Jolanda si sposta con le due figlie a San Vito, dove viene accolta e rifocillata dai Canadesi. Il 28 dicembre Ortona è liberata e qualche giorno più tardi si fanno i funerali di Vincenzo. Resta il mistero di chi l’abbia colpito! Un cecchino? Un tedesco o qualcuno che l’aveva voluto punire per aver messo in salvo Sua Maestà? Non ci sarà risposta.

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