Santo Stefano di Sessanio: per un piatto di lenticchie! (prima parte)

   di Vittorina Castellano

Il profilo della torre medicea si stagliava con eleganza verso la luna piena che inondava di eburnea luce l’incantevole borgo medievale di Santo Stefano di Sessanio. Claudio dormiva nella camera che il nonno aveva sistemato per il suo arrivo da Toronto, al piano superiore della casa in pietra calcarea, visibile dalla Porta medicea, in fondo alla Piazza. Era già notte inoltrata quando un fragoroso boato squarciò il silenzio e un’interminabile onda d’urto fece vacillare le mura del borgo. Claudio si svegliò dopo essere stato scaraventato a terra dalla scossa sismica, sentiva strani rumori, grida di paura in un’atmosfera da incubo. Tento di accendere la luce, pigiò più volte l’interruttore ma il buio regnava sovrano, si precipitò lungo le scale e abbracciò i nonni che piangevano avvolti in una coperta.

«Lu terremote! Scappeme fôre a la piazze, curre nonnò, prime che ce casche ‘ngolle la case!».

In piazza si erano riversati i pochi abitanti del paese, tutti spaventati ma fortunatamente illesi, Una polvere sottile si mescolava con la flebile luce lunare che svelò allo sguardo degli smarriti malcapitati l’incredibile danno che il terremoto aveva arrecato al paese. La torre era miseramente crollata al suolo insieme ad altre poche case. Un vero disastro architettonico per la storia del paese.Una costruzione alta 20 metri, a pianta cilindrica, in pietra concia locale, munita di caditoie e di finestre per le balestre che, grazie all’intervento dei Medici, fu migliorata e arricchita sulla sommità di beccatelli e di merlatura ghibellina. Vederla sbriciolata lungo la strada, in un nugolo di polvere, aveva ammutolito tutti. Nessuno più emise un gemito, un silenzio assordante frizzò uomini e cose. Claudio era salito due giorni prima sulla torre per ammirare il fantastico panorama alle porte del Parco dei Monti del Gran Sasso e della Laga. Si era fatto un selfie tra i merli svettanti e aveva postato la foto sul suo profilo social. Il ragazzo era arrivato per una vacanza dal Canada, dove viveva con i genitori, emigrati a Toronto nei primi anni ottanta. In due giorni, come un assetato che scorge un’oasi nel deserto, il ragazzo aveva percorso il dedalo di strade strette, con scalinate e portici ricorrenti del borgo a nido d’aquila che si avvolge con le case attaccate l’una all’altra e all’altura della torre centrale. Poco più che ventenne, il giovane, avido di conoscere le proprie radici e scavando nei ricordi di racconti sentiti e risentiti da bambino, entrava in paese da ovest per mezzo di via Nazario Sauro, e poi da est per via del Cantone, per poi salire alla Porta medicea, per poi immettersi nella Piazzetta dei Medici, con la cappella della Madonna e il Palazzo delle Logge. Girovagava, fotografando ogni piccolo particolare, per Via Chiesa e Via Torre, per arrivare alla chiesa della Madonna del Ruvo, e alla Torre. Claudio aveva conseguito da poco la laurea in Scienze Agrarie, facoltà scelta per retaggio familiare. Il nonno paterno coltivava lenticchie a Santo Stefano di Sessanio. Il giovane, nato a Toronto, dove i genitori si erano trasferiti per lavoro subito dopo il matrimonio, ricordava vagamente il paese d’origine dei suoi dove si era recato un paio di volte da bambino, per trascorrere le vacanze di Natale con i nonni. Con il passare degli anni le visite in Abruzzo si erano diradate fino a diventare un ricordo sbiadito. Solo i genitori erano andati periodicamente a trovare i nonni, ormai anziani, in un paese sempre più spopolato e decadente.

Le prime luci dell’alba spalancarono uno scenario desolato, mucchi di blocchi di pietra calcarea ostruivano i già stretti e tortuosi vicoli del borgo. Le persone, avvolte in coperte di fortuna, nel centro della piazza, si stringevano spaventate tra loro. Il suolo, dopo la rovinosa scossa, non aveva prodotto repliche rilevanti. Claudio, ricordando le sue nozioni di geologia, cercò di rassicurare i nonni ipotizzando che l’epicentro del sisma non doveva essere a Santo Stefano ma in un’altra località, sicuramente abruzzese. Ormai il sole scaldava lo spaurito gruppo di terremotati, singulti e lamenti di disperazione echeggiavano nel borgo ferito. Claudio che, come tutti, aveva i neri e folti capelli ricoperti di frammenti di polvere calcarea, si allontanò dal gruppo e corse a controllare la casa: era intatta, non presentava lesioni, solo qualche suppellettile era volata a terra. Il pericolo sembrava passato, Corse a chiamare i nonni, stremati di paura e di stanchezza, per rassicurarli e per riportarli a casa. Non fecero resistenza. Nei giorni successivi negli abitanti crebbe la consapevolezza che bisognava accettare le conseguenze delle calamità naturali e affrontare con risolutezza un programma di ricostruzione. Furono recuperati e ripuliti i blocchi di pietra della torre franata per consentire un restauro adeguato. Anche per le poche case crollate fu adottato lo stesso criterio. Era importante la conservazione storica e architettonica del borgo medievale nel suo spettacolare scenario ambientale. Verso la fine degli anni novanta il paese si era spopolato, i giovani erano migrati in cerca di lavoro. Molte case furono acquistate da un architetto imprenditore che con interventi non invasivi ma conservativi le adeguò in soluzioni ricettive, rustiche ma accoglienti, di albergo diffuso. Fu rilanciato così uno sviluppo turistico sostenibile. Il borgo era diventato una delle mete più suggestive dell’intero Parco Nazionale, Ai turisti piaceva vivere un’esperienza affascinante tra le mura in pietra calcarea bianca, imbrunita dal tempo e con coperture realizzate con coppi. Il terremoto aveva inferto un duro colpo al borgo e una veloce ripresa avrebbe riacceso interesse per i visitatori. Per Claudio era ormai trascorso il mese di vacanza previsto ma il ragazzo comunicò ai genitori che, visti gli ultimi accadimenti, per i nonni la sua presenza era indispensabile: avrebbe dato il suo contributo per la raccolta delle lenticchie.

I nonni coltivavano da sempre, sulle terrazze montane che circondano il borgo, una qualità di lenticchia piccola, di colore scuro, dalla buccia rugosa e sottile ma ricca di ferro ma così tenera da non necessitare di ammollo. Con lo sviluppo turistico del paese gli agricoltori rimasti avevano valorizzato il prodotto organizzando sagre e degustazioni di lenticchie in zuppe molto semplici che ne esaltavano il profumo e il gusto, specie se accompagnate da crostini di pane e un filo di olio extravergine di oliva. Il ragazzo era instancabile, all’alba era già a lavorare nei campi, amava l’odore che trasudava dalla terra umida filtrando tra le rigogliose piante cariche di baccelli. Nel pomeriggio si univa ai volontari che restauravano le case diroccate, ormai si sentiva uno di loro. Ogni sera, nel Palazzo Mediceo “La Bifora” lungo Via Chiesa, poco distante dalla piazza, si riuniva il comitato per la ricostruzione e Claudio offriva il suo generoso contributo di idee e collaborazione. Il ragazzo guardava sempre con ammirazione la costruzione in pietra con due grandi bastioni e due finestre bifore di gusto tardo-gotico. La facciata, ornata dall’elegante loggiato rinascimentale, permetteva a Claudio di andare al piano superiore attraverso un percorso pedonale dotato di ampie finestre. Le riunioni si prolungavano fino a tarda sera, ma la nonna lo accoglieva per cena con gustose minestre fumanti, il cui aroma si spandeva tra vicoli vetusti. Il giovane gustava volentieri scodelle di lenticchie con patate, salsiccia e volarelle ma anche minestre di ceci, castagne e zafferano. (continua …)

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