Fuoco di paglia (parte 2)

di Vittorina Castellano

Mentre facevo queste considerazioni, sentii strapparmi dalla spalla il prezioso fardello e mi sentii afferrare con violenza per la camicia, ma la mano del giovane che stava per sferrarmi un pugno si bloccò di colpo. Nell’afferrarmi si era reso conto di aver sfiorato un seno florido e palpitante dallo spavento. Avevo di nuovo freddo, tremavo tutta, ero come paralizzata, volevo giustificarmi, ma nessun suono poteva essere emesso dalle mie corde vocali irrigidite. La mano del ragazzo stringeva ancora la mia camicia, mi sentii strattonare verso di lui.

– Sei una femmina! –

Mi spostò a favore del fioco raggio di luna, mi tolse il cappello che mi proteggeva parte del viso e vide cadere giù per le spalle i miei lunghi capelli neri.

– I codardi hanno mandato una femmina! –

Ora potevo osservarlo, non doveva avere più di trent’anni, il suo viso, sebbene adirato, palesava lineamenti regolari ed eleganti, aveva occhi grandi e neri come due carboni ardenti.

– Non mi hanno mandata, – finalmente riuscii a balbettare qualche parola – è stata una mia iniziativa. –

Sentivo il calore della sua mano sul seno, i nostri volti erano molto vicini

– Cosa pensavi di fare da sola? –

– Ti avevo visto l’estate scorsa, da lontano, mentre coglievi le canne con i tuoi amici, lungo il fiume-

– Mi spiavi? –

– No, ero seduta a leggere vicino al fontanile, ho visto che avevate ripulito il canneto.-

– Quando si prendono non si bada se sono tutte della stessa grandezza, si prendono e basta. Poi si scelgono. –

– I miei avevano poche canne, li ho sentiti lamentarsi mentre le pulivano e così….-

– Hai pensato di procurarle, intraprendente ed emancipata la ragazza! –

I miei occhi fissarono i suoi, attimi di silenzio, interminabili, solo i nostri respiri si sfioravano, sentivo la sua mano lasciare lentamente quel lembo di stoffa che la separava dalla mia pelle.

– Non ho mai picchiato una donna, non lo farò mai, sono Giovanni e tu? –

La sua voce era fioca, il suo viso disteso, era visibilmente confuso e imbarazzato. Quella forte e calda mano ormai non mi impediva di fuggire, ma ero ferma lì, dove lui mi aveva sospinta, mettendo a nudo tutta la mia fragilità.

– Elisa –

Eravamo come impietriti, i nostri sguardi continuavano ad incrociarsi, seguivano ora il contorno della bocca, ora quello delle gote. Ci stavamo studiando. Il latrato di un cane ci distolse, ci “rianimammo”.

– Ti aiuterò io, da quale contrada vieni? –

– No, se ti scoprono i tuoi passerai un guaio! –

– Non ti preoccupare, non se ne accorgeranno, andiamo. –

Afferrò il fascio di canne e lo caricò in spalla, io infilai la giacca e il cappello e poi afferrai l’estremità opposta del fascio.

– Allora dove andiamo? –

– Cascina Giardino –

– Sei la figlia di mastro Giuseppe?-

– Si –

– E’ il miglior capofarchia del paese, le canne gli spettano di diritto.-

Uscimmo dal fienile con circospezione portando quel lungo e prezioso fardello. Qualche fiocco di neve si posava sulla falda del mio cappello, mi sentivo le gote arrossate, guardavo l’agile figura di Giovanni, che, con passo esperto, si dirigeva verso la mia cascina. Era ancora buio, nonostante uno spicchio di luna facesse capolino tra le nubi bigie. Non incontrammo nessuno, arrivammo.

– Aspetta – dissi poggiando le canne a terra – guardo se c’è qualcuno –

Le gambe mi tremavano, non sapevo se più per la paura di trovarmi davanti mio padre o per il freddo intenso. Aprii la porta del fienile, era deserto. Ripresi l’estremità della fascina ed entrammo. Poggiammo le canne sopra le altre, sparpagliandole in modo da non far notare una qualche differenza. Eravamo di nuovo vicini.

– Grazie, Giovanni, sono stata davvero fortunata! –

– E’ vero, sarebbe stato un delitto farti un occhio nero, sono così belli color del cielo! –

Le mie gote divamparono, le forti pulsazioni mi facevano vibrare. Ci guardammo intensamente, fummo calamitati l’un l’altro, le sue morbide labbra sfiorarono le mie.

– Buona notte Elisa –

Sparì nel chiarore dell’alba, rimasi sola, mi sentii raggelare, decisi di tornare a letto. Rannicchiata sotto le coperte, ripensai alla tenerezza di quell’incontro, alla dolcezza di quel bacio. Fui distolta dalle solite concitate voci che provenivano dal fienile, era arrivato il fatidico giorno, mi vestii in fretta e scesi a vedere. La farchia era pronta, l’avevano rinforzata e avevano messo le canne esterne, poi avevano sistemato il fiocco e lo avevano riempito di paglia. Era proprio perfetta, era appoggiata sulle filagne, due pali incrociati con le funi per l’alzata. Mio padre mi guardò

– Hai dormito poco stanotte? – Aveva capito.

– Ho avuto un po’ freddo – risposi strizzandogli l’occhio.

Mi sorrise. Sul piazzale antistante la chiesa di Sant’Antonio Abate furono issate ad una ad una le dodici farchie, portate a spalle dai rispettivi contradaioli, seguiti da donne e fanciulli che suonavano e cantavano in onore del Santo. Giovanni era lì, che metteva in mostra tutta la sua possenza mentre spingeva la filagna, era lì, a pochi passi dal mio cuore palpitante ma i suoi grandi occhi neri non mi cercarono. Mortaretti scoppiettanti accesero le farchie, quelle gigantesche torce che ogni anno costituivano un rituale propiziatorio per i faresi. Era uno spettacolo meraviglioso, luci ed ombre si sovrapponevano caoticamente, suoni e canti si mescolavano allo scintillio dei fuochi, inferno e paradiso nello stesso istante. Mi sentivo sola in mezzo a quella moltitudine, provavo a cantare, ma un senso di vuoto mi bloccava la voce. Non aveva sentito il desiderio di rivedermi, di sentire il calore di un mio abbraccio, ero stata un insignificante fuoco di paglia per lui. Avevo gli occhi lucidi per la delusione, non per le lingue di fuoco che sempre più alte lambivano il cielo. D’un tratto mi sentii afferrare la mano, mi girai di scatto…..era mio padre. Mi strinse forte fra le sue braccia. Il mattino seguente salii sulla corriera, avevo bisogno di recuperare l’autostima rituffandomi fra i miei libri e nella vita cittadina. Qualche mese dopo ricevetti una lettera di mio padre, Giovanni era emigrato in America. (fine)

 

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