Fuoco di paglia (parte 1)

di Vittorina Castellano

Guardavo malinconica dalla finestra il lento sfarfallio dei fiocchi di neve, che imbiancava i rami degli alberi e il tetto del granaio. Era un inverno, quello del 1950, particolarmente freddo, aveva già nevicato più volte e, se questo era un bene per la campagna, il mio piccolo paese, Fara Filiorum Petri, arroccato su uno sperone breccioso ai piedi della Majella, rischiava di rimanere isolato. Io stessa avevo faticato non poco per raggiungerlo per le vacanze di Natale, la corriera aveva avuto difficoltà a salire per la neve che ingombrava la strada. In quel periodo ero in collegio a Roma, studiavo medicina, sarei stata la prima “dottoressa” della famiglia, i miei erano degli operosi mugnai da più generazioni. Non avevo la loro vocazione, avevo imparato a preparare dei dolci ma senza passione, solo per necessità, perciò mio padre un giorno mi prese sulle sue ginocchia e mi chiese cosa volessi fare da grande.

– Vorrei studiare –

Vidi i suoi occhi scintillare di gioia, forse io avrei realizzato il suo sogno nel cassetto. Mi ero trasferita in collegio per gli studi liceali e poi quelli universitari, ero al terzo anno di medicina, tornavo in paese solo per le vacanze, avevo perso ogni contatto con i miei coetanei perciò quando tornavo a casa, d’estate, facevo delle passeggiate lungo il fiume Foro, mi fermavo a riposare sotto un salice rosso e mi immergevo nella lettura. D’inverno rimanevo quasi sempre a casa, aiutavo mia madre a preparare le “sagne” e i dolci per la festa delle “farchie”. Prolungavo le vacanze di Natale fino al 16 gennaio, giorno della festa in onore di Sant’Antonio Abate, la festa del fuoco che doveva propiziare la luce solare necessaria alla vita degli uomini, degli animali e delle piante, una sorta di rito magico che doveva purificare la popolazione dagli influssi dannosi. Un rituale che era diventato patrimonio genetico dei faresi, che fin da bambini, venivano coinvolti nei preparativi per l’allestimento delle “farchie”. Il paese era suddiviso in dodici contrade, alcune nel centro storico altre nelle campagne limitrofe, ogni contrada allestiva la propria farchia, una sorta di grosso cilindro del diametro di un metro e dell’altezza di nove, dieci metri, una vera e propria torre fatta di canne. La raccolta delle canne nelle campagne e lungo il fiume iniziava già qualche settimana dopo la festa in quanto le canne dovevano essiccarsi in un luogo asciutto, preferibilmente fienili o granai, per poter essere assemblate e “sacrificate” per il “rogo”. Il vetro della finestra era tutto appannato, delle voci concitate provenivano dal fienile, decisi di scendere a vedere. Uomini e ragazzi con colpi di falcetto, rapidi ed esperti ripulivano le canne, che alla fine dell’operazione sortivano lisce e perfette. Mio padre, il capofarchia, impartiva gli ordini. Avevano già costruito il pianale, una sorta di impalcatura fatta da pali e tavole di legno, dove venivano poggiate le canne per essere assemblate.

– Le canne più dritte e più lunghe mettetele da parte per lo strato esterno – urlava in quella confusione mio padre – iniziate a preparare   “l’anima “-

La nostra era la contrada Giardino, un po’ fuori paese ma non proprio in aperta campagna, i contradaioli non erano stati molto abili o forse fortunati nella raccolta delle canne, ne vedevo poche nella catasta. Un gruppo di uomini esperti iniziò ad assemblare l’anima, un piccolo fascio di canne più corte che doveva essere la parte interna della farchia, attorno alla quale dovevano essere sovrapposte, in tondo, in modo da ingrossare il diametro, altre fascine. Il rinfascio era lento, mancava la materia prima. Fuori dal fienile dei ragazzi avevano acceso un fuoco scoppiettante per poter riscaldare i rami di salice rosso che avevano raccolto lungo il fiume.

– Forza, siamo pronti per l’attaccatura-

Mio padre aveva infilato dei grossi guanti come pure i suoi aiutanti

– Perfetta la giunzione, girate, ora, forza, fissatelo così. –

Mano a mano che aumentavano i legami della farchia, mio padre sganciava la grossa fascia di metallo che teneva insieme le canne rinfasciate.

– Non possiamo mettere il fiocco, ci vogliono altre canne!-

Mia madre aveva servito la cena a base di sagne e fagioli a tutti, io avevo portato i dolci e il vino rosso. Mangiarono con appetito, avevano lavorato senza sosta tutto il giorno, ma non aleggiava sui loro volti un’aria di festa, sembravano insoddisfatti del lavoro svolto.

–La farchia misura ottanta centimetri, con le canne lunghe esterne non arriveremo a farla di un metro –

-Mettiamoci più paglia, mica si vede –

–  Si vede, quando prende fuoco si vede eccome! –

La compagnia si sciolse.

– Buona notte ci pensiamo domani, ora sono troppo stanco. –

Mio padre licenziò i contradaioli e andò a dormire. Avevo visto durante una mia passeggiata estiva lungo il fiume, un gruppo di ragazzi della contrada Piane fare letteralmente razzia di canne, pensai che forse ne avessero prese più del necessario, togliendo ai nostri la possibilità di raccoglierle. Dovevo recuperare il maltolto, non potevo far sfigurare mio padre, non lo meritava. Aspettai che il silenzio scendesse nella casa, indossai una giacca e nascosi i lunghi capelli calcandomi in testa un cappello a falda larga, e uscii senza fare rumore. Non nevicava, ma un’aria gelida sfiorò le mie gote, dovevo fare in fretta, il fienile della contrada Piane non era molto lontano, ma dovevo scavalcare muretti di recinzione e terrapieni, un percorso accidentato ed innevato. Trafelata ed intirizzita giunsi al cascinale, la porta era chiusa, non ero in grado di forzarla, e l’idea di dover tornare indietro a mani vuote, mi fece ribollire il sangue nelle vene, ebbi uno scatto d’ira che mi mise in circolo tanta adrenalina, diedi un calcio alla porta che, come per incanto, si spalancò. Era buio ma non abbastanza, da alcune fessure del tetto penetravano i raggi argentei della luna, scorsi una catasta di lunghissime canne, già tutte mondate, pronte per essere assemblate. Mi avvicinai con circospezione all’agognato bottino, cominciai ad accarezzare le lucide canne. Non c’era bisogno di sceglierle, erano tutte uguali, tutte perfette, sembravano realizzate con lo stampino e non da madre natura. Pensai al percorso accidentato del ritorno, avrei dovuto scavalcare siepi, superare dossi innevati con un prezioso ma ingombrante carico. Cominciai a soppesare un piccolo fascio di canne, in fondo ne bastavano una decina per rinforzare la farchia. Avevo caldo, mi tolsi la giacca, appoggiai sulla spalla le canne dall’estremità più spessa, avrei dovuto trascinarle, ero sola, e il segno che avrebbero lasciato sulla neve, avrebbe portato presto i contradaioli derubati, alla nostra cascina. (continua)

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