Pescara e i suoi miti (I)

Grazia

di Adriano Lapi

Nelle sere calde di aprile, Grazia era sul mare fino a notte, indaffarata, e noi, stupiti, la guardavamo. Una gonna nera da sempre come un lutto eterno e rughe di un altro secolo. I capelli legati e un cane in soggezione. Fissava il mare ed eravamo certi che vedesse l’altra costa. Chi era? Da bambino ne avevo paura, da ragazzo ero rapito e la spiavo. Si racconta di una contessa fasciata di seta e brillanti, con servitù e due levrieri. Si fermò una sera di maggio, afosa; era sudata e le saltò un bottone della camicia. Il chiarore del seno si fuse con la durezza del sale. La contessa lasciò il codazzo: nessuno chiese mai niente. Grazia fece il caffè e lei le donò un anello. Raccolsero delle stelle marine e Grazia le tolse la sabbia dai piedi. E poi la spiai, di nuovo sola a guardare fissa il mare come se aspettasse. E mi sembrò di vederla piangere lacrime come chicchi di grandine. Ma no, forse vidi male: tanti addii già li aveva vissuti.

Commento a cura Raffaele Simoncini

Nelle dense, immaginifiche e commoventi parole di Adriano Lapi, si staglia, in modo netto, la traccia mnestica profonda di Grazia. Soprattutto, nelle sue calde e sensibili parole, si avverte la difficoltà di definire, focalizzare, un personaggio così atipico, sfuggente, silente e, ad un tempo, clamorosamente “rumoroso”. Eppure, ricorre, anche in queste toccanti istantanee, una grammatica esistenziale incancellabile: Grazia e il mare. In un panismo degno della più elevata tradizione dei miti delle metamorfosi greco-latine, Grazia era il mare, il mare era Grazia. Sarebbe stato impossibile pensare la figura maestosa, impenetrabile, cupa, inavvicinabile di Grazia, in luoghi altri che non fossero il mare. Ciascun ragazzo, che visse gli esordi di quei fatidici anni Sessanta, sapeva che, all’improvviso, Grazia si sarebbe materializzata, qui e là, sul lungomare. E allora, in silenzio, con una sorta di timore reverenziale, quei ragazzi venivano distolti dai loro giochi rumorosi o dalle loro “spacconate” sulle conquiste tanto “roboanti”, quanto, il più delle volte, frutto di fantasie ed inesistenti: Grazia, la misteriosa Grazia, sembrava reclamare, con il suo lento e meditato deambulare, un “rispetto” da parte di tutti loro e ciò le veniva riconosciuto, senza inutili interrogativi. Nessuno conosceva o sapeva molto di Grazia: vi erano voci, storie le più disparate, certezze senza fondamento alcuno, mitologie astruse; ma Grazia restava, per quei ragazzi, per noi ragazzi, la “presenza”, “il silenzio”. Ecco, allora, Grazia che fissa il mare, sola, Grazia che forse piange, Grazia che avverte su di sé il peso di tanti, troppi addii. Grazia veste sempre di nero, nelle sue gonne lunghe, Grazia è piena di rughe, Grazia porta i capelli legati, Grazia ha un cane che la segue sempre. Questa è la Grazia che noi tutti ragazzi di quell’epoca ricordiamo bene. Ma l’interrogativo di Adriano Lapi resta: chi era Grazia? Forse, si potrebbe chiedere ad Adriano Lapi, maestro d’arte, attore e regista, una sceneggiatura ancora tutta da scrivere o già da tempo scritta: Grazia, il ricordo di Grazia, la reclama, perché non venga dispersa nelle grinfie del “profondo nulla” una pietra miliare della “nostra” Pescara, della nostra “mitica” e irripetibile Pescara, del nostro mare e delle spiagge su cui, a guardar bene, si possono ancora rintracciare presenze di lacrime come chicchi di grandine.

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