I diritti dei lavoratori disabili (seconda parte)

Presentiamo la seconda parte dell’articolo che descrive gli strumenti a disposizione dei lavoratori disabili per coniugare le loro possibilità con le necessità dell’organizzazione nella quale sono impiegati.

di Damocle Garzarelli (Consulente del Lavoro) Num, Aprile 2019

Ancora oggi, molti ostacoli impediscono ai soggetti con disabilità di fruire dei propri diritti e libertà personali e, quindi, di una piena partecipazione alla vita sociale, a tal punto da ammettere, che molte sono state le azioni intraprese dal Legislatore italiano, volte a cercare di realizzare una piena integrazione di tali soggetti. Fra queste azioni troviamo una serie di norme che riconoscono diversi diritti ai portatori di handicap che lavorano. Di seguito si analizzano le principali tipologie di diritti.

Limiti all’assegnazione delle mansioni.

L’articolo 10, L. 68/1999, vieta al datore di lavoro di chiedere al disabile una prestazione non compatibile con le sue minorazioni. In caso di aggravamento delle condizioni di salute o di significative variazioni dell’organizzazione del lavoro: − il disabile assunto ex L. 68/1999 può chiedere che venga accertata la compatibilità delle mansioni a lui affidate con il proprio stato di salute; − il datore di lavoro può chiedere che vengano accertate le condizioni di salute del disabile per verificare se, a causa delle sue minorazioni, possa continuare a essere utilizzato presso l’azienda. Qualora si riscontri una condizione di aggravamento che sia incompatibile con la prosecuzione dell’attività lavorativa, o tale incompatibilità sia accertata con riferimento alla variazione dell’organizzazione del lavoro, il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che l’incompatibilità persista e, durante tale periodo, il lavoratore può essere impiegato in tirocinio formativo. Il rapporto di lavoro può essere risolto nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, venga accertata la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda. La Corte di Giustizia UE (causa C-312/11), con sentenza 4 luglio 2013, ha condannato l’Italia per non aver imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, venendo meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente l’articolo 5, Direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. A seguito di tale condanna è stato inserito il comma 3-bis, nell’articolo 3, D. Lgs. 216/2003, che attua la Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”. A dire il vero, dal dettato letterale della norma non è ben chiaro quali siano le conseguenze di tale modifica sul piano pratico. Innanzitutto bisogna chiarire che, quando nel citato comma il Legislatore parla di persone con disabilità, si sta riferendo a soggetti con una limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena e effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Inoltre, in conformità dell’articolo 2, comma 4, Convenzione ONU, sono da intendersi “accomodamenti ragionevoli” le modifiche e gli adattamenti necessari e appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali. Alla luce di quanto sopra il rispetto del principio della parità di trattamento dei soggetti che abbiano una limitazione risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, obbliga i datori di lavoro a prendere i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai “disabili” di: − accedere a un lavoro; − svolgerlo; − avere una promozione. A tal proposito si evidenzia che la Corte di Giustizia ha evidenziato che, se è vero che la nozione di “handicap” non è definita nella citata Direttiva 2000/78, la Corte ha già avuto modo di dichiarare che, alla luce della Convenzione ONU, tale nozione deve essere intesa nel senso che si riferisce a una limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Di conseguenza, l’espressione “disabile” utilizzata nell’articolo 5, Direttiva 2000/78, deve essere interpretata come comprendente tutte le persone affette da una disabilità corrispondente alla suddetta definizione, indipendentemente dal fatto che queste rientrino o meno nell’ambito di applicazione di una normativa nazionale. Conseguentemente, con specifico riferimento alla casistica più comune della sopravvenuta impossibilità fisica o psichica del lavoratore a svolgere le mansioni per le quali era stato assunto, il datore non può più solo limitarsi a “cercare” all’interno della propria organizzazione aziendale una nuova mansione cui adibire il dipendente, senza alcun obbligo di adottare nuove tecnologie o modificare l’assetto organizzativo esistente, ma deve porre in essere un adattamento ragionevole del luogo di lavoro e anche dell’organizzazione, se necessario, per assecondare le esigenze lavorative del disabile, così da non violare la normativa sul divieto di discriminazione.

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