E-Migranti. Nel “deserto” dei geyser

di Lalla Cappuccilli

“Qua in Islanda c’è tutto quello che c’è negli altri Paesi, inclusi i problemi, soltanto in scala ridotta”. Questa è stata la sintetica risposta della guida della nostra gita verso la Costa Sud ad una curiosa ragazza texana trasferitasi da poco in Marocco che gli chiedeva informazioni sulla situazione delle droghe leggere in Islanda. Probabilmente a lei l’argomento stava particolarmente a cuore: non deve essere roba da poco nascere in uno degli stati più rigidi e proibizionisti degli Usa, dove si può essere arrestati per possesso non solo di marijuana ma anche di un numero di sex toys superiore a 6, e poi passare alle distese infinite dei campi di cannabis del paese in testa alla produzione mondiale di hashish e marijuana. Probabilmente a lui ribadire che gli islandesi, a parte Bjork, non sono così “strani” stava a cuore allo stesso modo. Da e-migrante italiana in Olanda, ho capito che c’è un denominatore comune condiviso tra le nazioni piccole o delocalizzate, una sorta di inconscia “sudditanza psicologica” che porta i loro abitanti ad interrogarsi continuamente sulla loro diversità rispetto ai tedeschi, ai francesi e anche a noi italiani, e a negarla se ne capita l’occasione in un discorso. Tuttavia, in questi posti è lecito e neanche considerato scortese rivolgersi agli autoctoni anche di giovanissima età direttamente in inglese, senza scusarsi e senza chiedere prima il permesso, dando per scontato che l’utilizzo del loro idioma abbia una minima dignità e spendibilità, e resti comunque estremamente geolocalizzato.

Eppure quella risposta sulle prime mi ha lasciata perplessa, mi sembrava una descrizione poco aderente alla situazione di un Paese senza esercito, con forze di polizia dotate unicamente di sfollagente e spray al peperoncino, con celle carcerarie disponibili per meno di 200 potenziali detenuti, e dove le case ignorano l’esistenza di porte blindate e inferriate alle finestre. Ho sempre pensato che buona parte del malessere odierno del genere umano sia essenzialmente il prodotto del sovraffollamento, della lotta per la conquista e la difesa del proprio spazio vitale e delle proprie possibilità di sopravvivenza, fattori che accentuano l’egoismo e l’individualismo delle persone, percepibili dalle piccole polemiche in fila alla casse del supermercato fino alle più brutali manifestazioni di intolleranza verso la diversità.

L’Islanda sembra immune da tutto questo, la sensazione che si prova è di totale rarefazione. Rarefatta è la popolazione locale che, a parte la capitale Reykjavík con un conglomerato urbano di circa 120.00 abitanti, i 2/3 dell’intera nazione, si raccoglie in pochissimi piccoli centri abitati, spesso fattorie e piccoli villaggi. Rarefatto è il paesaggio, costituito da una natura tanto meravigliosa quanto inusuale per noi. L’incanto delle montagne a picco sul mare, dei vulcani, dei ghiacciai, delle potenti cascate, dei Geyser, delle piscine geotermali come la frequentatissima Blue Lagoon e al contempo la quasi totale assenza di piante secolari disorientano la nostra prospettiva di mediterranei. La mancanza di foreste ha una specifica ragione storica in quanto i primi colonizzatori dell’isola, così distante rispetto al continente europeo, operarono un massivo disboscamento allo scopo di costruire imbarcazioni, edifici, e produrre calore e pascoli per il foraggio del bestiame, distruggendo circa il 95% del patrimonio boschivo islandese. Il processo di riforestazione, ancora in atto, è stato lento e faticoso, anche per il clima poco favorevole allo sviluppo della tipologia di alcune piante, talvolta provenienti da altre nazioni come il Canada. Di conseguenza, tranne rare eccezioni nelle città, gli alberi sono cresciuti poco, ed uno dei più famosi proverbi del paese dice: “Se ti sei perso in una foresta islandese, ti basterà alzarti per ritrovare la strada”. Insomma nell’isola, non avrebbero ragione di esistere tutta la letteratura e la cinematografia basate sullo smarrimento del bosco, dalla “selva oscura” di Dante a Cappuccetto Rosso, dalla gotica “A Forest” dei Cure fino all’inquietante film “The Blair Witch Project”.

Tutto ciò però ovviamente non ha impedito il processo di globalizzazione, lo ha solo reso peculiare. I segni della colonizzazione mondiale da parte delle multinazionali si possono scorgere ovunque, gli immancabili cartelloni della Coca Cola hanno invaso ogni chiosco, ristorante o distributore di benzina dell’isola, solo che può accadere che tale esercizio commerciale sia spesso in mezzo al nulla, a decine di chilometri dal primo centro abitato. L’unico colosso ad aver dovuto desistere è la catena McDonald, schiacciata dalla concorrenza dell’eccellente carne locale, e così l’ultimo McCheese con patatine venduto il 31 ottobre del 2009, giorno della chiusura del fast food di Reykjavík, è stato esposto dapprima nel museo nazionale islandese, per essere poi trasferito in un ostello sotto una cupoletta di vetro munita di webcam per documentarne il lento deterioramento.

Avviandoci tristemente verso l’aeroporto internazionale di Keflavík per tornare ad Amsterdam nell’ultimo giorno del nostro viaggio, ci imbattiamo in un ragazzo più o meno in età universitaria sdraiato in terra a smaltire qualche eccesso di birra nell’androne del palazzo dove avevamo alloggiato. Sulle prime la luce del giorno che filtrava dalla porta a vetri mi aveva fatto dimenticare per un attimo che erano le 3 del mattino di un tranquillo solstizio d’estate nella capitale di stato più a nord del mondo. Poi ho rivolto lo sguardo di nuovo verso il dormiente sul pavimento che sembrava del tutto incurante di noi e del rumore delle nostre valigie con le rotelline e ho pensato che, se troviamo un accordo sul termine “scala ridotta”, in fondo quella guida un po’ di ragione ce l’aveva.

già pubblicato sul blog http://www.zac7.it/index/zac7_2015/index_dx_css_new_2015.php?pag=16&art=1&categ=E-MIGRANTI&IDX=18362&torna_edi=1

 

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