Invictus – William Ernest Henley L’angolo della poesia
a cura di Gennaro Passerini
Si può essere colpiti dalla cattiva sorte, si possono sopportare conseguenze inimmaginabili di malattie infettive invalidanti, ma si possono rintracciare in se stessi la forza e la determinazione, per continuare a vivere una “normalità” che non è tale. William Ernest Henley è un poeta inglese e, in questo numero, pubblichiamo la sua poesia più nota, a cui egli non diede un titolo, divenuta famosa per essere stata ricordata in un film impegnato, girato sul presidente sudafricano Nelson Mandela, con regia di Clint Eastwood e intitolato Invictus. Il protagonista la legge in prigione, durante la sua lunga e tormentata detenzione. Egli fu scrittore con vari interessi, editore, giornalista, ma soprattutto poeta. Questa poesia, che è stata scritta nel 1875, è stata pubblicata nel 1888, nella silloge A book of verses. Una notazione è d’obbligo. In questo angolo della poesia, abbiamo presentato testi esclusivamente tradotti in italiano; questa volta facciamo una eccezione e presentiamo il testo tradotto in italiano e quello originale in inglese. Crediamo che questa poesia meriti una scelta di tal tipo. Il commento è affidato al professore Raffaele Simoncini.
Dal profondo della notte che mi avvolge,
buia come il pozzo più profondo che va da
un polo all’altro,
ringrazio qualsiasi Dio possa esistere
per l’indomabile anima mia.
Nella feroce morsa delle circostanze
Non mi sono tirato indietro né ho gridato
per l’angoscia.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
il mio capo è sanguinante, ma indomito.
Oltre questo luogo di collera e lacrime
incombe solo l’Orrore delle ombre,
eppure la minaccia degli anni
mi trova, e mi troverà, senza paura.
Non importa quanto sia stretta la porta,
quanto piena di castighi la vita.
Io sono il padrone del mio destino:
io sono il capitano della mia anima.
È una poesia senza titolo, una poesia sul destino, su quello che il poeta riassume nel termine inglese evocativo fate che, non a caso, richiama the Fates, ovvero le Parche, le Moire: le donne dell’Ade che decidono della vita e della morte, insensibili, fredde, ineluttabili. La dura realtà della propria biografia pone il giovane poeta a dover vivere, in prima persona, l’esperienza di questa orribile e cruenta lotta. Le sue parole sono enormi macigni psicologici e, a volte, perfino inadeguate per esprimere del tutto il senso della precarietà ed episodicità del vivere: la profonda notte… buia come il pozzo più profondo… nella feroce morsa delle circostanze… sotto i colpi d’ascia della sorte… l’Orrore delle ombre (Horror of the shade), insomma, per toccare con mano una vita piena di castighi (with punishments the scroll). La vis a tergo che, però, dà un senso e una incrollabile forza all’orgoglio del giovane, ormai irrevocabilmente toccato dalla sorte, è tutto in quel my unconquerable soul, in una non-sconfitta anima; che sia pure sanguinante il capo, che appaia pure stretta la porta di una possibile sopravvivenza, nulla potrà intaccare la solida, indomabile speranza, che riesca a proiettarsi oltre la minaccia degli anni. La vita che sarà, afferma il poeta, mi troverà senza paura, perché se il destino che mi ha segnato mi lascia e mi lascerà cicatrici e dolori, io sono padrone comunque di quello stesso destino, io sono il capitano della mia anima. Le parole, queste parole, pesano: il poeta non si è tirato indietro, non ha gridato per l’angoscia, non ha fatto prevalere in sé lo sconforto e la disperazione, che sarebbero pur state comprensibili. Forse, proprio questa accettazione di un castigo della vita è un nucleo emotivo senza parole, che esige, pretende una rispettosa, silente lettura. Una poesia intima, raccolta, umana, profondamente, semplicemente umana. Retorica senza retorica. Eccessiva senza eccessi. Senza titolo: meravigliosamente senza titolo.
Out of the night that covers me,
Black as the pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.
In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.
Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid.
It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll,
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.