Linguaggio ed essere (seconda parte)

di Marco Tabellione

(continua) Nonostante le posizioni del filosofo Husserl, in tanti sono tornati ad affermare dopo di lui che il linguaggio è sì per l’uomo uno strumento di rappresentazione della realtà, ma anche di conoscenza profonda della realtà perché, esso, il linguaggio, finirebbe per coincidere completamente con la realtà stessa. “Tutto è linguaggio” sosteneva il filosofo Jacques Derrida, mentre da un’altra prospettiva il linguista Noam Chomsky, celebre anche per le sue contestazioni al sistema capitalistico, ammette che c’è una separazione evidente tra realtà e linguaggio, ma che alla fine il linguaggio umano più che adattarsi agli aspetti della realtà esterna è influenzato da coordinate psichiche interne all’uomo che sono costanti e le medesime in tutti gli individui. Husserl dalla sua ammetteva l’esistenza del linguaggio interiore, ma lo considerava come un surrogato del linguaggio comunicativo, una finta comunicazione con sé stessi, e che sia finta secondo lui è dimostrato dal fatto che nella comunicazione interiore, chiamiamola così, non vi è quella pausa necessaria tra emittente e destinatario che troviamo invece nella comunicazione esteriore, cioè quella che per Husserl può a ragione definirsi comunicazione autentica.

In ogni caso è evidente che Husserl non risolve la questione del rapporto tra linguaggio e profondità esistenziale dell’uomo, rapporto che può esser illuminato però da uno dei primi studiosi del linguaggio, vale a dire Aristotele. Per Aristotele la lingua costituisce un simbolo, così lo definisce, il grande filosofo, simbolo dice lui delle effusioni dell’anima, e la lingua scritta a sua volta costituirebbe il simbolo della lingua orale, o meglio ancora quella unione di linguaggio e pensiero che Aristotele e i Greci chiamavano Logos. Logos che possiamo senz’altro far coincidere con il linguaggio interiore di Vygotskij, poiché esso vige nella dimensione mentale del pensiero. Il logos, o comunque il linguaggio che si fa pensiero, essendo unione di pensiero e linguaggio, può essere considerato come crogiuolo di linguaggio ed essere, visto che la coscienza e la consapevolezza che abbiamo del mondo e di noi essi, è fortemente influenzata dalle idee, e le idee sono appunto un prodotto del linguaggio. Le nostre idee insomma finiscono per coincidere sul modo in cui noi concepiamo il nostro essere, ecco perché è possibile coniare l’equazione di linguaggio ed essere.

In effetti quando Aristotele parla di simbolo si riferisce non tanto a un segno che rappresenti un significato che sta oltre, cioè ad un segno che rinvii a qualcos’altro, ma fa riferimento al greco sýmbolon che possiamo tradurre alla lettera con contrassegno, pezzetto di materiale resistente che veniva diviso in due per permettere a due persone di riconoscersi attraverso l’unione dei due pezzi, una volta riaccostati. Dunque, il simbolo non rimanda a una relazione, il simbolo indica una unione, nel senso che solo l’unità, o meglio il ricostituirsi di una unità, può permettere la nascita di un significato, e in ultima analisi tale unità va interpretata come unità di linguaggio ed essere.

Non per niente il celebre passo d’apertura del vangelo di San Giovanni recita: “In principio era il verbo e il verbo era presso Dio”. Vero è che il testo originale era in greco, e dunque l’accezione originaria non era semplicemente quella di lingua o linguaggio, ma logos, che può voler dire logica o ragione, ma che per i Greci probabilmente indicava quella commistione di pensiero e linguaggio alla quale ci stiamo riferendo. Linguaggio e pensiero ma, e lo abbiamo già detto, dovremmo parlare a questo punto di linguaggio ed essere. Scopriamo cioè alla fine che il linguaggio influenza il nostro modo di essere o meglio che per l’uomo il linguaggio è il suo fondamentale modo di essere, e che ovviamente il rapporto con la lingua influenza la coscienza di ognuno di noi.

Coltivare linguaggio e cultura allora vuol dire coltivare la consapevolezza che il linguaggio espressivo e il linguaggio interiore possono contribuire ad allargare l’area della coscienza. Ma possono fare di più: possono aiutarci a capire che l’essere umano, ogni essere umano, non è solo sé stesso, è anche gli altri, negli altri trova sé stesso, e in sé stesso gli altri, perché la dimensione che compone la sua coscienza (ciò che pensiamo sia l’io) è il risultato di azioni non solo interne ma soprattutto esterne, tutte veicolate dal linguaggio, che non è solo una convenzione, dunque non è solo uno strumento, è in realtà la componente collettiva dell’essere.

Il linguaggio, la sua capacità creativa, il fatto che lo utilizziamo non solo per comunicare ma anche per costruire la nostra consapevolezza del mondo, dimostra che ogni singolo, ogni individuo in realtà non è solo sé stesso, è il risultato della relazione complementare di fattori interiori ed esteriori, individuali e collettivi, per cui davvero l’individuo finisce per acuire significato nella collettività e, viceversa, in ciascun individuo prende senso tutta la società, per cui lo scopo precipuo della società non dovrebbe essere il mantenimento della società come sistema (cosa che denunciava Freud nel suo celebre “Il disagio della civiltà”), ma deve essere la difesa dell’individuo, di ogni singolo, considerato come parte fondante e fine ultimo della società.

Scopo, va da sé, sistematicamente trascurato.

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