Il Pastore Bianco

   di Vittorina Castellano

Era di maggio, nel 1963, il cielo terso prometteva una splendida giornata. Guido Montauti era tornato a vivere nel suo Abruzzo dopo anni di soggiorno a Parigi. Si era stabilito a Teramo ma si recava spesso nella casa paterna di Pietracamela, dove era nato e aveva trascorso la sua adolescenza. Il paese, sulle pendici della montagna, nell’area protetta del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, è costituito da edifici addossati tra loro in un simbolico abbraccio e realizzati con ciottoli e pietre unite da legante terroso. Stretti vicoli e scalinate agevoli, abbelliti da balconi fioriti, conducono a terrazze belvedere da cui si godono scenari di incomparabile bellezza. Da ragazzo aveva percorso bellissimi sentieri fino ad arrivare alle sorgenti del Rio Arno dove, con l’amico del cuore gustava un fragrante pane e frittata sotto l’ombra di un generoso faggio. Altre volte i due ragazzi, percorrendo boschi in cerca di funghi, si spingevano fino alle mulattiere erbose dei pastori. Guido era un pittore affermato, la sua vicenda artistica era iniziata da giovanissimo a Teramo, poi il coinvolgimento nelle vicende belliche lo portarono in Grecia, Albania, Austria, Germania e infine in Francia, dove riprese a dipingere oli di piccolo formato e una serie di acquarelli. In seguito si recò a Milano dove espose opere caratterizzate da una personale vena espressionistica. Nel 1950 soggiornò a Venezia dove espose nella XXV Biennale. Gli anni Cinquanta segnarono la sua affermazione: realizzò una prima personale a Parigi, dove si trasferì.

Guido Montauti era un artista affermato e apprezzato da critici e pittori, cosa che gli infondeva sicurezza e profonda autostima che lo portavano ad affermare “Ho fiducia nella mia fantasia e nel mio sprezzante mestiere per puntare verso una introduzione primigenia di elementi che mi dà certezza di approdo, schivo di eclettismo.” Nei primi anni sessanta, dopo aver esposto per l’ultima volta, lasciò Parigi per tornare in Italia. La sua arte era di una semplicità essenziale, non povera ma pura, alla continua ricerca di un irrinunciabile processo di autocoscienza. D’estate tornava spesso a Pietracamela, un piccolo borgo medioevale immerso nella natura incontaminata. Petra Cumerii e Pietra Cameria sono stati i primi nomi del paese. La prima parte del nome deriva da Preta, che in paleo-italico indica l’enorme roccia sulla quale è costruito il borgo. Dubbiosa la seconda parte, che può riferirsi al masso a forma di gobba di cammello che si vede dal paese, come all’invasione dei Cimerii, Petra Cimmeria o a Petra Cacumeria, vale a dire “pietra “in cacumine”, “pietra in sommità”. Il Pittore, così lo chiamavano affettuosamente i compaesani, passeggiava tra le case del 1400 percorrendo viuzze fino a raggiungere scorci di antica bellezza. Passava davanti alle chiese romaniche di San Giovanni e di San Rocco, si fermava a rimirare edicole, icone, antiche iscrizioni spagnole, come se le scoprisse per la prima volta. Quella mattina del primo maggio Guido stava percorrendo il sentiero che lo avrebbe portato alle Grotte di Segaturo, poco fuori l’abitato di Pietracamela, lungo il costone che sovrastava il paese. Il Pittore si sentiva immerso nel suo habitat, guardava estasiato le enormi rocce che costeggiavano il sentiero, passava con delicatezza le mani sulla superficie calcarea, quasi per accarezzarle, appoggiava il viso come in un abbraccio e rimaneva fermo a meditare. Ripeteva il rito dell’approccio empatico con ogni masso che incontrava lungo il sentiero, si sentiva ispirato, quasi che i giganti di pietra gli sussurrassero all’orecchio la loro storia. Annusava i profumi delle foglie dei lussureggianti cespugli che segnavano il cammino, ascoltava i suoni della natura immersa nella vivida luce. Egli si sentiva parte del paesaggio che con avidità fissava nella sua mente con vividezza di cromie surreali. Il suo pensiero stava elaborando nuove esperienze da realizzare, lo sentiva, ne percepiva l’impellente necessità. Aveva bisogno di condividere le sue sensazioni con qualcuno che potesse capirlo e incoraggiarlo a percorrere nuovi sentieri creativi. Tornò in paese, era ormai l’ora di pranzo, un odore inconfondibile si percepiva in ogni angolo: il sobbollire lento delle virtù. Un rito che si ripete ogni primo maggio nell’Abruzzo teramano, un “unicum” condensato in un piatto denso di sapore, tradizione e comunità, simbolo di rinascita e speranza. Le Virtù sono un vero mosaico di primizie di stagione, legumi secchi, cotica di maiale e vari tipi di pasta fresca e secca, un atto di memoria e di festeggiamento, un omaggio ai cicli della natura e alla resilienza di una comunità che, anno dopo anno, si riunisce attorno a questo piatto per rinnovare legami, tradizioni e identità. Guido, fin da piccolo, aveva visto preparare la delizia della tradizione, dalla nonna che durante l’inverno metteva da parte nella credenza avanzi di pasta che non utilizzava, piccole quantità di ceci, fagioli, piselli e lenticchie che poi cucinava separatamente già da qualche giorno prima di unirle, per fine cottura, con tutte le altre verdure di primavera, anch’esse cucinate separatamente. In cucina si sentiva una combinazione di odori che solleticavano l’appetito, Guido seguiva ogni singolo passaggio della preparazione, da buon osservatore, studiava le forme dei diciassette ingredienti necessari per rispettare l’usanza della civiltà contadina. Guai se qualcuno si azzardava a chiamarlo minestrone! La nonna andava su tutte le furie, strofinava le mani sul lungo grembiule e iniziava a raccontare le origini del piatto che risalivano al culto della Terra durante il Calendimaggio per salutare la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, simbolo di fertilità e abbondanza. Si infervorava nel raccontare il significato apotropaico delle Virtù. Gesticolava intrecciando e sciogliendo le dita ossute mentre mimava le preparazioni. «Non è un semplice minestrone e nemmeno una zuppa – inveiva – questo piatto è arte culinaria, è una delizia per il palato. Tante consistenze e forme diverse si amalgamano ma senza perdere il profumo e il sapore, una vera magia.» Agli occhi del ragazzo la nonna evocava l’immagine di una fattucchiera intenta a mescolare nel calderone una magica pozione. Mentre nella sua mente scorrevano teneri ricordi, il Pittore si ritrovò davanti al portone spalancato dei vicini di casa, una famiglia di pastori, lo stavano aspettando per consumare insieme il rito delle Virtù. Durante il pranzo Guido conversò amabilmente di arte con il loro figlio, Bruno, giovane pastore talentuoso che da autodidatta si dilettava a dipingere. Parlò con lui della sua crisi creativa e della necessità, che avvertiva impellente, di percorrere nuove strade per ritornare a immergersi nella natura, decantando atmosfere rurali, riti e miti delle tradizioni irrinunciabili.

L’artista, tornando a Teramo, incontrò tre giovani pittori che invita a fare una passeggiata a Pietracamela. Qui, in compagnia del pastore Bruno, risalirono il sentiero fino a raggiungere le grotte di Segaturo. Nel suo habitat Montauti si rigenerò, concepì una nuova filosofia artistica. Assieme ai giovani pittori, Piero, Diego, Alberto e Bruno, fondò il gruppo “Il Pastore Bianco”, con lo scopo di riportare la figura dell’uomo nella pittura in contrapposizione alla “Pop Art”, che aveva portato alla degenerazione delle arti figurative. I cinque artisti rinunciarono all’autonomia della firma per dare vita a una pittura collettiva. Guido si dedicò con rinnovata passione a questa nuova esperienza, fondata sul principio dell’espressività condivisa, una concezione innovativa di grande attualità. Quei grandi massi che segnavano il sentiero fino alle Grotte di Segaturo avevano stregato la fantasia del Pastore Bianco: i colori variegati delle foglie e dei fiori, l’odore inconfondibile del muschio, la fragranza di bacche, funghi e felci, avevano sortito un unicum artistico, come le Virtù. Il gruppo realizzò dipinti monumentali sulle rocce del sentiero e sulle pareti delle grotte, sagome umane e di animali assorte in un’attesa coinvolgente, tutt’uno con la roccia. Le pitture parietali rupestri, forme pure che rasentavano l’essenziale, colpiscono l’osservatore per l’alternanza cromatica, dai toni del grigio al nero passando per il rosso, il giallo e l’azzurro. Sagome stilizzate, dai tratti schematici e dallo sguardo grave, che silenti intraprendono il loro cammino verso l’ignoto. Gruppi compatti che condividono un possibile futuro, trasmettono una forza psicologica indimenticabile. Tali opere, capolavoro di scenografia ambientale, sopravvissute alle intemperie per circa mezzo secolo, nel 2011 sono state travolte e danneggiate da una frana gigantesca prodotta dal crollo di una parete rocciosa sovrastante. L’ambiente è stato completamente trasfigurato. Solo recentemente si è intrapreso il recupero e il restauro dei dipinti rupestri, a salvaguardia di un patrimonio artistico unico nel suo genere. L’esperienza de il Pastore Bianco si conclude alla fine degli anni Sessanta. (fine)

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