Quale evoluzione
di Marco Tabellione
Sul significato del termine evoluzione si potrebbe scrivere tantissimo, perché le ottiche sull’evoluzione e sull’idea di progresso come qualità tipicamente umana, sono davvero tante. Il problema è che di tanti punti di vista su che cosa voglia dire progredire, oggi purtroppo finisce per avere la meglio la visione scientifica e tecnologica, per cui evolversi vuol dire migliorare oltremodo gli strumenti che utilizziamo per approcciarci alla realtà. In pratica il miglioramento della nostra vita ma anche di noi stessi, del nostro benessere, viene sempre visto come un miglioramento della relazione che abbiamo con il mondo, mai come effettivo miglioramento di noi stessi. Migliorare e aumentare cioè i vantaggi che possiamo trarre dal rapporto con le alterità e non piuttosto le nostre qualità umane e intellettive.
L’uomo ha conosciuto molteplici forme di evoluzione e l’origine stessa della conoscenza ha avuto caratteristiche diverse dalla concezione con cui oggi ad esempio consideriamo la scienza. Giambattista Vico pone all’origine di ogni forma di sapienza addirittura le prime esperienze di immaginazione compiute dagli ominidi preistorici, da quelli che lui descrive come giganti, scimmioni ancora animaleschi, ma dotati di una fantasia particolarmente vivida e impressionabile, paragonabile a quella dei bambini. Sarebbero stati loro a dare vita alle prime forme di visione della realtà, impregnate di invenzione e superstizione, ma indubbiamente generative del processo conoscitivo successivo. Alle origini della sapienza umana, dunque, ci sarebbe l’inganno e l’illusione. Lo stesso Vico lo sottolinea anche se riconosce alla potenza immaginativa dei primi uomini una forza creatrice e generativa. Dall’ignoranza, dice il filosofo napoletano, nacque la curiosità e dalla curiosità la scienza. Ma questa origine poetica della coscienza, che Vico testa ed esamina, ci dice che l’evoluzione, come la concepiamo oggi, non è l’unica praticabile dall’uomo e che l’evoluzione linguistica e immaginativa, oggigiorno snobbata dallo scientismo e dai ricercatori di nuove tecnologie, si presenta invece non solo peculiare dell’uomo ma anche basilare.
Come Vico dimostra nella sua Scienza Nuova la conoscenza nell’uomo nasce innanzitutto come sapienza poetica, perché sorge dalla forza immaginativa dei primitivi; da quell’ignoranza estrema, da quegli errori incredibili, che oggi ci fanno quasi ridere, sorse la tendenza umana alla curiosità e a investigare i misteri dell’esistenza e a farlo in origine semplicemente proiettando sul mondo naturale le proprie vicissitudini, gli impulsi, le risposte magiche e un bagaglio vasto di emozioni, sentimenti e persino di paure che gli antichi investigavano e creavano grazie alla forza dell’immaginazione, con cui l’uomo primitivo tendeva a spiegarsi i fenomeni utilizzando le categorie umane (per cui il fulmine è un prodotto della rabbia divina).
Tuttavia, da queste proiezioni nacquero i primi significati che l’uomo riuscì a rappresentarsi e da questi primi livelli semantici sorsero i valori condivisi, i valori della collettività, la necessità di seguire non una ragione egoica, legata ad una legge egoistica e individuale, ma una ragione di stato o comunque di società. Inoltre, le grandi costruzioni della mitologia hanno sempre più fatto evolvere il linguaggio, lo hanno portato a livelli altissimi, non solo per ciò che concerne la comunicazione ma anche per ciò che riguarda l’espressione. Il linguaggio ha reso l’uomo divino e, non per niente, Vico fa risiedere in ciò anche la nascita delle prime religioni. Ignoranza, curiosità e scienza, questa è la triade dell’evoluzione secondo Vico, che fa precedere le discipline scientifiche proprio dalla facoltà retorica della poesia.
Ecco quelle incredibili invenzioni dell’immaginazione che hanno portato alla creazione di opere mitologiche e poi letterarie, su cui fondiamo ancora la nostra comprensione del mondo e dell’uomo, hanno partorito la morale di Socrate, la filosofia di Platone, i suoi dialoghi così ancora forieri di creatività e sapienza, rispetto alle successive concezioni individualistiche e monologiche del sapere e poi ancora la sintassi di Cicerone, le sentenze moralistiche di Seneca, il dettato di Dante che concepisce la poesia come risposta al dettato dell’amore, e le grandi costruzioni tragiche di Shakespeare, la bellissima visione del mondo dei romantici, i ragionamenti lucidi degli illuministi.
Tuttavia, è proprio a partire dall’Illuminismo, con la crescita arrogante del principio scientifico il quale si è venduto alla tecnica, che abbiamo cominciato ad evolverci secondo un’accelerazione mai conosciuta prima, giungendo però a dimenticare le costruzioni arcaiche che miravano a limitare l’avidità degli esseri umani. Oggi concepiamo l’evoluzione non più in termini di linguaggio, di elevazione spirituale e intellettuale dell’individuo, oppure di pratica della memoria e dell’esperienza interiore, ma riteniamo valida come evoluzione solo quella tecnologica, vale a dire l’ideazione di apparati che, come sosteneva Socrate, finiscono per rimpicciolire le facoltà dell’individuo, per renderlo sempre più limitato e poco cosciente, poco consapevole delle sue potenzialità indipendenti da strumenti esterni.
Credo che il problema della contemporaneità sia l’eccessiva concretezza. Abbiamo perso ideali ed utopie, abbiamo perso l’innocenza e la spontaneità, siamo diventati tutti grandi comunicatori strategici per dirla con Habermas, il filosofo tedesco del secolo scorso erede della scuola di Francoforte, che distingueva tra comunicazione strategica, cioè strumentalizzata a fini preesistenti, con la comunicazione volta all’intesa, che mira a instaurare un dialogo schietto e sincero. Bisognerebbe tornare a queste forme di autenticità, tornare ad esempio a rivalutare il versante del mito, del valore filosofico, l’idea stessa del sacro come fondamento dell’agire concreto, tornare ad esperienze di spiritualità interiore che non vadano confuse con un po’ di yoga o di retorica sentimentale.