Un esecutivo tutto nuovo
di Pasquale Sofi
Abbiamo un nuovo Governo con un Presidente del Consiglio nuovo di zecca, e per la prima volta nella storia della Repubblica alla guida dell’esecutivo è stata chiamata dal Capo dello Stato una donna, l’onorevole Giorgia Meloni, su proposta precisa del partito della coalizione che alle ultime elezioni è risultato
il più votato. È vero che la nostra Costituzione non prevede il premier votato dal popolo (e pertanto il Presidente della Repubblica può incaricare anche un viandante di passaggio) ma per anni abbiamo assistito al grido lamentoso di coloro che definivano usurpatori (solo per dare modo a una gran massa di ignoranti bramosa di pronunciarsi in merito) gli ultimi presidenti del Consiglio che si sono succeduti, perché non “validati” dal voto popolare. Il nuovo esecutivo così nato viene definito un Governo politico proprio per distinguerlo dal precedente che oltre al premier annoverava diversi tecnici, esterni al mondo politico. Ma che fosse un Governo prettamente politico ne abbiamo preso atto fin dalle prime determinazioni che, da subito, hanno mostrato il tratto distintivo sia di Fratelli d’Italia che della Lega; mentre la terza forza della coalizione di centrodestra è rimasta sulle sue cercando di mantenere la giusta protezione per le imprese del suo capo ormai logoro; mentre i cespugli hanno spillato quanto possibile in termini di sottogoverno.
A dare le carte e a dettarne le condizioni sembrano essere proprio la presidente Meloni e il vice Salvini, mai in simbiosi come in questo momento, e con il programma della Lega già pronto a essere cantierato appena si provvederà a recuperare le risorse economiche, ovviamente in deficit che per l’anno 2023 sarà del 4,5% (rapporto debito Pil). Figurarsi se così si potrà mai finanziare la costruzione dello stretto di Messina, ennesima presa per i fondelli per gli abitanti del Sud che accuseranno in aggiunta anche il peso dell’autonomia regionale; e quando i suddetti abitanti troveranno nelle pieghe della storia, anche quella più recente, le modalità per reagire sarà sempre troppo tardi. La presidente Meloni, che fino a poco più di un mese dalla data delle votazioni vedeva il suo partito FdI alternarsi al PD nella leadership dei sondaggi, lanciava la volata decisiva concentrando la sua campagna elettorale sul Nord, surclassando così non solo il Pd, quanto i suoi compagni di coalizione, ai quali riusciva a sottrarre gran parte dei voti in quelle regioni. Incontrando la Confindustria e i notabili di quelle zone ha probabilmente promesso loro quello che la Lega non è mai riuscita a ottenere in questi anni (l’autonomia?). Non saprei pertanto, a urne ormai chiuse, valutare chi nel merito ci abbia guadagnato: la Lega, a cui interessa spostare sempre più la ricchezza al Nord, sta portando avanti il suo programma come se avesse vinto le elezioni, e sotto questo aspetto sembra proprio
il partito vincitore; FI, che deve difendere prioritariamente le aziende berlusconiane, vorrebbe da un lato fare una politica più moderata, ma i dissidi interni (nel suo partito e nella coalizione) lo impediscono. Spetta quindi
a FdI, il partito vincitore di fatto, il compito di connotare ideologicamente la politica del Governo mostrando quella veste che fino a oggi in Italia non era stata indossata significativamente da nessuno, nemmeno quando al potere è stata la sinistra a governare (forse solo una manifestazione di volontà all’epoca della sporadica desistenza di Bertinotti in uno dei governi Prodi).
Certamente abbiamo assistito al giuramento di ministri quasi tutti provenienti dalle file dell’ex MSI, ma solo la sinistra italiana, affetta da sindrome ossessiva, può ancora credere che costoro, nostalgici o meno, possano riproporre il temuto ritorno del fascismo. Molto probabilmente si tratta della solita vecchia strategia diventata ormai lagnosa e stucchevole.
Sono apparse invece subito evidenti le stimmate di un governo conservatore: dalla perdonanza dei medici no vax, all’abolizione quasi in toto delle mascherine, dall’innalzamento dell’uso del contante, chiaro sostegno agli evasori fiscali in attesa anche di condono (stavolta chiamato pace fiscale, forse per pudore o per addolcire la pillola…dopo l’ennesima rottamazione di cartelle), alle critiche mordi e fuggi sempre frequenti sui vaccini e sulla gestione della pandemia. Ma è significativa anche la rimozione di alcune denominazioni ministeriali rinominate con lessico d’antan. Semplicemente risibile l’aggiunta “e del merito” allo storico Ministero della Pubblica Istruzione, appendice utile solo per propagandare a chiacchiere una scuola efficace.
Se invece di rottamare bollette e concedere bonus anche per delle banalità, provvedessero a recuperare risorse per pagare meglio gli insegnanti (pretendendo da loro un servizio di qualità) non raccontando corbellerie a uso e consumo dei più ingenui e poco informati, avrebbero fatto un’opera meritoria. Meglio ancora sarebbe se sul “problema scuola” (perché la scuola oggi è, a detta dei più esperti, un problema) si creasse una costituente trasversale, per definire quale tipologia di scuola oggi serva di più alla nazione (mi adeguo allo slang caro al Presidente del Consiglio) e come articolarla e declinarla. A mio parere,la maggioranza, (solo per non attribuire al singolo ministro un inciampo collettivo che sa tanto di ignoranza), ha confuso il merito con la scuola selettiva di una volta, quasi scomparsa in Europa. La nostra scuola invece oggi dovrebbe garantire il successo formativo a tutti gli studenti. È cosa ben diversa il successo formativo che in potenza è attinente ai talenti di ciascuno, da un merito generico, indefinito e in un campo ancora da accertare. Gli alunni diversamente abili, ad esempio, come saranno gestiti in questo quadro? La scuola pubblica li accetterà ancora? Purtroppo, la sinistra cui avrebbe dovuto competere, per ideologia contrapposta, la gestione statale dell’istruzione, non è mai riuscita a darle una riforma significativa né una funzionalità quantomeno efficace.
L’aver affondato le riforme di Berlinguer prima e di Renzi dopo rappresenta un vulnus gravissimo che mai la sinistra avrebbe dovuto consentire. La prima introduceva la scuola delle competenze, la seconda avrebbe garantito quel controllo che non c’è mai stato, attraverso l’attribuzione di precise responsabilità, dirigenti in primis. Purtroppo, annoverare la CGIL tra le sue fila si è rivelato esiziale per la formazione nazionale. Quali argomentazioni la sinistra oggi potrebbe contrapporre se la destra al governo, coerentemente con i propri legittimi principi antistatalisti, proponesse la privatizzazione, tutta o in parte, di una scuola così malridotta?
Quanto al merito, basterebbe che la scuola operasse per competenze come viene richiesto in Europa, eliminando del tutto i voti; ma la compagine docente ne sarebbe capace? Da qui l’introduzione del merito anche per il personale docente e non. Ma la storia ci dice che la valutazione del personale è lungi da venire.
Vedremo cosa saprà fare il neoministro; certamente non c’è da essere ottimisti se il populismo regnerà ancora sovrano.
Altro inciampo del nuovo Governo lo ritroviamo sull’accoglienza migranti. Qui sono evidenti due realtà comunicative: una è quella ufficiale a uso e consumo dei soliti ingenui e creduloni, l’altra è secretata negli archivi. Si crea tanto rumore per nulla: a parte le leggi umanitarie che il razzismo rinnega, va chiarito che l’accoglienza è regolamentata dai trattati di Dublino, regolarmente firmati dall’Italia; in particolare nel 2003 firmati dal governo Berlusconi, e nel 2013 dal governo Letta sull’onda emotiva del naufragio dell’imbarcazione libica nel quale persero la vita oltre 350 persone. Successivamente mentre i vari incontri per cercare di modificare i trattati risultarono vani, si pensa siano annegate nel canale di Sicilia oltre 25.000 persone, ma questo interessa poco o niente. Salvini, acerrimo nemico dell’immigrazione clandestina (l’immigrazione regolare è di fatto sospesa per la farraginosità delle norme), nel periodo in cui era ministro dell’interno disertò tutti gli incontri comunitari per il rinnovo del trattato. In compenso si vantò di aver ridotto il flusso migratorio bloccando i porti, mentre con i barchini in quel periodo ne arrivarono oltre 200.000. Gli immigrati che arrivano con le navi delle Ong, inoltre, rappresentano solo il 16% dell’immigrazione annuale; quindi, ben poca cosa rispetto agli altri paesi europei che di immigrati ne ospitano molti di più. La Francia, ad esempio, ha da decenni la gran parte delle banlieue occupate da immigrati dove si annida il terrorismo islamico; la Germania ha una comunità turca numerosissima; per non parlare del Regno Unito…e a chiedere i ricollocamenti siamo noi che tanti di questi profughi li vediamo solo di passaggio.
Eppure, ne avremmo bisogno (gran parte delle aziende del nord ne fa largo e silente impiego…). Per non parlare della nostra decrescita demografica. Ma siamo consapevoli di tutto ciò?
Comunque, l’incidente diplomatico con la Francia era da evitare: le raccomandazioni di Draghi sono finite nel dimenticatoio e mostrare i muscoli con l’Europa non conviene proprio.
Ancora una volta l’autorevolezza del presidente Mattarella è intervenuta per smussare i toni, mentre l’onorevole La Russa avrebbe potuto risparmiarsi una replica inopportuna.
Nei confronti della politica del nuovo Governo non si capisce ancora quali comportamenti assumerà l’opposizione che, in vero, dovrebbe fungere da pungolo affinché l’interesse nazionale prevalga comunque. Ma dubito che sarà così! Il terzo polo ha affermato che valuterà le singole decretazioni di volta in volta, ma si è già dichiarato disponibile a trattare su un’eventuale riforma istituzionale (cosa che dovrebbero fare tutti per dovere e serietà istituzionale).
Il PD rimane in attesa del suo congresso a marzo e persevera nella perenne ricerca di identità che però si identifica con un immobilismo cronico incapace di proporre soluzioni e nuove idee; sembra però che abbia cominciato a diffidare del M5S. Quest’ultimo dice no a tutto e ha lanciato un’OPA sul PD strizzando l’occhio all’estrema sinistra. Invece Conte, dopo aver governato da premier con modi decisamente urbani, si è improvvisamente trasformato in un guerrillero sudamericano, ovvero in una specie di novello cangaceiro del
Sertao o di un Che Guevara de “noantri” con il viso truce e con l’intento, non troppo recondito, che possa illudere gran parte della sinistra massimalista per convincerla a migrare verso il movimento che fu di Beppe Grillo (al quale senza colpo ferire, l’avvocato del popolo di Volturara Appula l’ha elegantemente sfilato).
Speriamo comunque che il nuovo Governo, illuminato sulla via di Damasco, inverta la rotta e rinunci a esibire muscoli e a fare sfoggio di autoreferenzialità, perché dei primi non si ravvede il bisogno mentre dell’altra gli italiani sono straricchi. Pertanto, il “merito”