Nella morsa della Giustizia (secondo e terzo capitolo)
di Domenico Di Carlo
STEFANO E LORENZO
Rossella digitò il primo numero trovato nell’agenda, trattenendo il respiro a ogni squillo, finalmente qualcuno rispose: «Pronto? Chi parla?» rispose una voce di donna.
«Buonasera, sono Rossella, la mamma di Patrizia. Chiedo scusa per aver chiamato a quest’ora. Parlo con la mamma di Lorenzo?»
«Buonasera Rossella, non si preoccupi assolutamente per l’orario. Sì, sono Giuliana, la madre di Lorenzo. Devo dirle che è un piacere risentirla, anche se in modo tanto inaspettato. Tutto bene?»
«Vorrei poter dire di sì, ma sono preoccupata per Patrizia: da questo pomeriggio non mi dà notizie e non è suo costume farlo, sa che ci preoccupiamo! Infatti telefonavo per sapere se sapevate qualcosa, magari ha parlato con Lorenzo.»
«Lorenzo è qui, glielo passo subito, sperando in Dio che possa darle qualche notizia che la possa rasserenare.»
Quasi immediatamente dall’altro capo della cornetta, giunse una voce conosciuta: « Signora Rossella, sono Lorenzo, stavo giusto sentendo la chiamata. Mi dispiace ma non posso esserle di alcun aiuto. Stamattina, al seminario di diritto parlamentare, io e Stefano abbiamo aspettato Patrizia per ben due ore, l’abbiamo anche cercata in facoltà, ma senza trovarla! Però ci siamo premurati di prendere gli appunti del seminario e le dispense, così gliele consegneremo domani. Non saprei cosa aggiungere.»
Conclusa la telefonata, i genitori di Patrizia rabbrividirono, vennero improvvisamente vinti da un senso di paura, privi di forze si sedettero sul divano per recuperare lucidità.
«Federico, cosa sarà accaduto a Patrizia? Perché non telefona? Perché non viene qualche suo amico o amica a rassicurarci? Non so più a cosa pensare!» Rossella era palesemente nel panico.
L’uomo, pensieroso e agitato, cercò di non far notare il suo stato d’animo alla moglie, per darle il sostegno di cui aveva bisogno, vedeva palesemente che le stavano addirittura tremando le gambe. In silenzio, provò a incoraggiare la moglie telefonando anche Stefano, forse lui sapeva qualcosa.
Purtroppo la telefonata a casa di Stefano non ebbe alcun esito se non quello di far sprofondare i genitori ancora di più nello sconforto.
A questo punto, Federico prese la parola: «Rossella, cerca di non agitarti. Adesso usciamo e andiamo la caserma dei Carabinieri. Vedrai, ci aiuteranno a trovare Patrizia e a risolvere questa situazione.»
IL MARESCIALLO DI FERRO
I coniugi si prepararono il più velocemente possibile e si avviarono alla caserma dei Carabinieri. Parcheggiata l’auto, dopo qualche breve istante per ricomporsi, l’uomo suonò al citofono e attese.
«Chi è? Cosa desidera?» rispose un appuntato.
«Sono il professore Federico Ghersi, cerco il maresciallo Marco Parenti per una questione molto seria e delicata che riguarda mia figlia Patrizia.»
«Le apro subito, il maresciallo Parenti è in servizio.»
L’appuntato li fece entrare. «Prego, accomodatevi in salotto. Vi annuncio al maresciallo, nel frattempo, per favore, attendete qui.» Si congedò e si diresse verso la stanza del comandante, attraversò un lungo corridoio e bussò alla porta.
«Avanti!» quindi, aprì.
«Comandante, ci sono i coniugi Ghersi che cercano di lei per un grave problema che sembra riguardare la figlia.»
«Il professore lo conosco bene, se è preoccupato, sicuramente sarà per un valido motivo. Li faccia pure accomodare,» rispose prontamente, chiamato anche “maresciallo di ferro” per il suo essere freddo e severo; anche il suo aspetto fisico rispecchiava questa definizione: era un uomo dai capelli neri corti, leggermente grigi, zigomi forti, occhi grigi, baffoni neri e folti, corporatura robusta e voce baritonale. Incuteva un senso di timore reverenziale al solo vederlo, si vedeva palesemente che la divisa da Carabiniere era il senso della sua vita.
Marito e moglie entrarono nell’ufficio del maresciallo; questi si alzò e gli venne incontro, tese la mano a Federico e dedicò un inchino alla moglie.
«Come va professore? E lei signora Rossella? I miei ossequi più sentiti! Accomodatevi, come posso esservi utile?» disse Parenti.
Federico si sedette accanto a Rossella e le prese con dolcezza la mano fra le sue. Istintivamente, la moglie si appoggiò a lui per cercare di evitare di essere sopraffatta dal peso della situazione, cercando nel calore del suo compagno, del conforto.
«Siamo profondamente turbati e agitati, nostra figlia non è ancora tornata a casa dal primo pomeriggio, e non ha dato alcuna notizia di sé se non un piccolo avvertimento, ma sarebbe ugualmente rientrare entro cena. Il fatto che non avvisi è del tutto anomalo, Patrizia ci tiene sempre informati di ogni ritardo o assenza. Ora sono le undici di sera! Siamo molto preoccupati, cosa possiamo fare?»
Le finestre dell’ufficio erano spalancate, l’aria era afosa e soffocante, dalla strada arrivava la musica insieme alle voci di giovani seduti al bar che discutevano di calcio, un’atmosfera in contrasto con quello che stava avvenendo nell’ufficio del maresciallo.
Parenti notò l’espressione sui volti pallidi dei suoi interlocutori, il sudore iniziò a imperlare la fronte di Federico, si notava una forte emozione che scuoteva Rossella tanto da farla tremare. Tentò di rassicurarli cercando di mostrare più tatto possibile, ma ottenne solamente di essere criptico e disorientare ulteriormente i genitori di Patrizia: «A tutti i mali vi sono due rimedi: il tempo e il silenzio.» Poi alzò la cornetta del telefono e convocò l’appuntato per raccogliere la denuncia di scomparsa di Patrizia.
«Ho in portafoglio una foto-tessera di mia figlia, la porto sempre con me,» disse Federico rompendo un imbarazzante silenzio carico di tensione mentre aspettavano l’arrivo dell’appuntato.
«Potrebbe esserci utile, la faremo ingrandire e la trasmetteremo a tutte le gazzelle della città.»
Così iniziarono il verbale: «Professore dia i suoi dati anagrafici.»
Così l’uomo iniziò a rispondere a tutte le domande che Parenti e l’appuntato gli ponevano:
«Mi chiamo Federico Ghersi nato a Greve in Chianti il 18 aprile 1920, residente a Firenze in via dell’Orto al numero 8, sono docente dell’Accademia di Belle Arti di Firenze e critico d’arte. Questa mattina ero di ritorno da Prato con la mia autovettura Mercedes 220 insieme a Patrizia. Giunti in città, per motivi di traffico, ho deciso di lasciarla sul lungarno. Doveva recarsi in facoltà a scienze politiche, per seguire un seminario di diritto parlamentare. Erano circa le undici del mattino. Patrizia indossava pantaloni di jeans, mezzi stivaletti di colore marrone, una camicetta bianca, un orologio di marca Tissot in oro e argento; portava una borsa di pelle indossata in spalla, contenente i suoi appunti, un libro di testo universitario, un portafoglio di piccole dimensioni di pelle marrone, contenente la carta d’identità e qualche lira.
«Non vedendo Patrizia rincasare, mia moglie ha telefonato a casa di Lorenzo Guelfi e Stefano Cortesi, suoi amici di vecchia data e di cui conosciamo le famiglie, ma questi hanno risposto di non avere notizie di Patrizia, non era neanche arrivata al seminario, difatti l’avevano cercata in facoltà senza esito.
«Oltre ai numeri di telefono di Stefano e Lorenzo, nella sua agenda personale e tra gli appunti, carte, quaderni, non abbiamo rinvenuto altri numeri di telefono.
Mia figlia non è fidanzata ufficialmente; non credo che abbia un compagno di sentimenti, ma non lo posso escludere.
«Quando ho lasciato mia figlia sul lungarno all’altezza del ponte alla Carraia, ho notato che, forse casualmente, si incontrava con un giovane di alta statura, di robusta costituzione e capelli neri lunghi. Non ho dato peso alla vicenda perché Patrizia era sempre circondata da amici e noi non li conoscevamo tutti. In qualità di genitori, intendiamo presentare la denuncia di smarrimento o abbandono volontario di nostra figlia,» terminò Ghersi dopo aver aggiunto anche altri particolari e parlato della telefonata pomeridiana a opera della figlia.
«Le dò lettura del verbale di denuncia, se risponde a quanto da lei dichiarato dovrà firmarlo in fondo unitamente a sua moglie,» disse l’appuntato. Nel dialogo tra l’appuntato e il professore, intervenne Parenti aggiungendo una eventualità a cui i due coniugi non avevano voluto pensare fino a quel momento: «Può trattarsi anche di un rapimento.
A volte, le persone disperse vengono ritrovate dopo un paio di ore o qualche giorno dopo…»
«Rapimento?» esclamarono insieme i genitori sconvolti.
«Sì, rapimento,» continuò il maresciallo, che non amava perdersi in fronzoli inutili e andava dritto al cuore del problema: «Forse i rapitori conoscono le abitudini della vostra famiglia e di vostra figlia… è probabile che sul Lungarno dove lei ha intravisto quel giovane che ha descritto sia avvenuto qualcosa… potrebbero esserci altri complici…» Rossella ebbe un sussulto, voleva piangere ma sarebbe stato inutile, perché le lacrime non le avrebbero riportato sua figlia.
Parenti continuò: «Avete notato qualcosa di strano sotto casa? Lei Ghersi all’Accademia di belle arti? Facce strane? Particolari? Scrutatrici? Con barba e capelli lunghi da extraparlamentari? O anche un impertinente che intendeva in facoltà fare conoscenza con Patrizia?»
«Non abbiamo notato sospetti, né Patrizia ci ha mai riferito di eventualità del genere. Vede maresciallo, nostra figlia per queste cose è molto riservata, preferisce confidarsi più con gli amici che con noi. Ma ora cosa dobbiamo fare?»
«Nulla,» rispose Parenti, «se si tratta di un rapimento, chi lo ha realizzato conosce le vostre abitudini e vi ha pedinato e osservato attentamente. Patrizia potrebbe essere stata attirata da una persona che conosce, degna di fiducia o a cui era sentimentalmente legata. Nel caso, presto i rapitori si faranno sentire con lusinghe, rassicurandovi che Patrizia è viva e in buona salute, aggiungendo che non dovrete agitarvi; nel caso diranno di non rivolgervi alle forze dell’ordine. Poi, dopo qualche giorno, arriverà la richiesta di denaro per il riscatto.
Consiglierei, dunque, di restare in silenzio in attesa dello sviluppo delle indagini. Non parlate con nessuno, neanche con amici o parenti. Il modo migliore per riportarla a casa è il silenzio, se ci si mette di mezzo la stampa, potrebbero accadere dei guai seri. Capiremo in pochi giorni se si tratta di un rapimento o altro,» concluse Parenti.
Il dialogo stimolò anche l’appuntato Valensise, solitamente molto restio a parlare. Egli era il tipico uomo con la divisa sempre stirata e ordinata, così come erano ordinati i suoi abiti civili; era profondamente convinto che le persone si giudicassero dall’apparenza, quindi che anche i meriti di un Carabiniere emergevano grazie a una buona cura della propria immagine. «Speriamo, signori Ghersi, che non si tratti di un rapimento, perché i rapitori dell’imprenditore Ottaviani non sono stati ancora assicurati alla giustizia, ma c’è una nota decisamente positiva: l’ostaggio fu liberato attraverso trattative segrete tramite il suo avvocato… si ha a che fare con dei professionisti del crimine, che hanno affinato il sistema del rapimento con un piano strategico alternativo di fuga…»
Parenti annuì approvando l’episodio riportato dall’appuntato, cosa che sembrò essere approvata persino dai coniugi, che annuirono anche loro tirando un primo sospiro di sollievo dopo tutta quell’angoscia.
Nonostante queste parole però Federico firmò il verbale ancora tremando, insieme a sua moglie. Dopo aver firmato e sbrigato le ultime formalità, i due ricevettero una copia del verbale e si accomiatarono.
Mentre la coppia usciva dall’ufficio, una voce baritonale riempì la stanza: «Ghersi, abbia fiducia nell’Arma!» esclamò Parenti.
«Ho fiducia nell’Arma, ma mi sento più sicuro rivolgendomi alla Provvidenza Divina,» rispose Ghersi, sospirando, e i due andarono via, insicuri in chi riporre le loro speranze.