A PEQUERALE (Il pastore)- L’angolo della poesia
L’angolo della poesia a cura di Gennaro Passerini
Nella sua vocazione sempre più orientata a salvaguardare gli usi e le tradizioni delle genti d’Abruzzo, il Grande Sorpasso ha più volte presentato testi poetici in vernacolo, ritenendo che le lingue dialettali posseggano da sempre una dirompente, spontanea, immediata capacità di dire e comunicare. La poesia che viene presentata in questo numero ha una sua originalità poiché è stata scritta e pubblicata nel 2014 da un giovane poeta di Pescasseroli, Mario Ursitti, in appendice a un volume miscellaneo che raccoglieva gli atti di un convegno sul poeta-pastore Cesidio Gentile, nel centenario dalla nascita. Dunque, una poesia dialettale che ha origine in un bacino linguistico tutto specifico e in un’area geografica ben definita, squisitamente di montagna. Il tema trattato dal poeta è una personalissima rievocazione di esperienze maturate e tramandate nel tempo, ascoltate e riascoltate, uniche nel loro genere e nei riferimenti socio-culturali. Il commento è affidato alla penna del prof. Raffaele Simoncini
A PEQUERALE (Il pastore)
A saule s’è accappate
la fronna lenta cade
se passe è affatecate
è gia’ ura p’qural.
R’tira tutte l cus
saluta figli i spusa
ha da lassa’ se jacce
p’lla Puglia se ‘rpart.
L’ombrella t’acchmbagna
pe tutte se tragitte
sotte ad acqua, lambe i tune
repara i fa’ da titte.
I se la notte puje
a lupe s’avvecina
tremenne la matina
raccontale a chi vu.
La Puglia è assai lentana
ce pinze ma nè cria
s’angine sembre mane
t’aiuta pe la via.
Quande si arrevate a Foggia
te si gia’ rassacrise
ma s’uteme penzaire
va sembre a quia paisce.
A Pesche patria bella
te tenghe dentre a core
i ascise a sta capanna
so scritte ste parole.
Comme si bella terra maja
ne penzaire de vierne tu si
jurne i notte pe tratture
a core me chiagne lentane
L’autunno, quello simboleggiato malinconicamente da la fronna lenta che cade, designa, per il pastore delle montagne, un momento irrinunciabile di scelta di vita, che comporta l’abbandono del suo universo affettivo e sociale: l’inizio della transumanza, per quel tratturo percorso più e più volte nel corso degli anni. Si lasciano gli affetti – salute figlie e spusa -, si salutano gli amici, si interrompe quella rete inestricabile di relazioni, che costituisce la linfa vitale dell’uomo del paese, del proprio paese. Il poeta, con parole scarne ed essenziali, in alcuni casi anche intimistiche, lascia trasparire questa dialettica della vita quotidiana del pastore, solo con il suo gregge, che affronta con timore, e anche con una sorta di fatalismo, le avversità del tempo – sotte ad acqua, lambe e tune – e le paure di incontri non voluti – e se la notte puje a lupe s’avvicine – che lasciano addosso un tremore che non scompare di certo il mattino seguente. La natura sembra essere cupa, ostile e la mèta ancora lontana: il pastore incede lentamente, con il suo bastone, e sa che prima o dopo riuscirà ad arrivare nelle Puglie. Il tragitto, lungo e faticoso, umanamente alienante trova tuttavia un riferimento forte, costante, profondo nella compagnia interiore del mondo abbandonato: s’uteme penzaire va sembre a quia paisce, a Pescasseroli che il pastore tiene dentre a core. Il giovane poeta, che vive in questi luoghi e di questi luoghi, sa dentro di sé che l’amore per la terra maja si rafforza nel lungo inverno e ogni pastore, anche se analfabeta, ha saputo e voluto cantare in una simbolica capanna tutto il suo amore e il suo attaccamento alla propria terra amata. Questa poesia, con garbo e sensibilità, sembra provenire da echi lontani di narrazioni di storie di vita, tramandate nel tempo: il giovane poeta ha raccolto frammenti di questi echi e di ciò occorre indubbiamente dargli merito. In quanto agli scontati accostamenti ai bei versi dannunziani sul tema, si può ben dire che i tratti oleografici in essi presenti denotano una carenza di pathos, di immedesimazione, un’alterità rispetto a quell’universo di significati.