Felicità e cultura
Possiamo senz’altro definire la felicità lo scopo del nostro essere in vita. Chi potrebbe negare questo? Eppure come ci ricorda Seneca nel De vita beata, nonostante tutti cerchino la felicità, essa sfugge, anzi più la si cerca, più le strade verso di lei si complicano. Bisognerebbe, sostiene ancora Seneca, cercare una via che, a differenza delle altre vie sicure, è la meno battuta, perché le persone, secondo il filosofo latino, a un certo livello di evoluzione si comportano come le pecore, ognuna imita quella che ha davanti e ciò porta tutto il gregge a smarrire la strada per la felicità. Per questo lo scrittore latino consiglia di seguire la filosofia stoica che insegnava la virtù come strumento di felicità, perché la virtù, che possiamo definire in modo semplificato la capacità di controllare la propria vita con coscienza e consapevolezza, aiuta a dominare la tendenza al piacere, che se lasciata fare rischia di rovinarci.
Nell’opera Seneca considera anche la filosofia di Epicuro, che, come sappiamo, identificava la felicità con il piacere, ricordando che Epicuro non predicava la vocazione sfrenata al piacere, ma una moderazione dei piaceri, in modo che essi, mantenuti ad un certo livello, non giungano a soffocare l’individuo, o perché insufficienti (determinando desiderio di sofferenza) o perché esagerati (comportando l’autodistruzione del soggetto). Nell’opera Seneca consiglia in definitiva la frequentazione di quella che noi genericamente definiamo cultura, per conseguire un controllo sui piaceri e dunque un aumento di consapevolezza e perciò di felicità, intendendo per felicità la contentezza, cioè l’essere appagati.
Viene anche in mente una splendida poesia di Holderlin (poeta romantico tedesco) “Un’estate donatemi o possenti”, in cui il poeta mostra come rendere persuaso e dunque saziato “di dolce gioco” il cuore, e non vede miglior strumento che la poesia stessa, infatti sostiene: “Ma se avrò la poesia, ciò che di più puro vive nel profondo del mio cuore, sii benvenuta pace tra le ombre”, vale a dire la poesia, che in questo caso fa le veci di quella che abbiamo all’inizio definito cultura, consente addirittura di accettare con gioia, o comune volentieri, la stessa morte. Holderlin prosegue scrivendo: “E anche se non mi seguirà la cetra”, dove cetra qui sta per simbolo della poesia, “avrò vissuto un’ora come gli dei e più non chiederò”; il che equivale a dire che “mi sarà bastato aver vissuto un momento definibile poetico, per avere una pienezza di felicità bastevole per l’eternità”.
Poesia – cultura – arte; perché i due autori citati sostengono che tali facoltà umane possono offrirci l’autentica felicità? Credo che una risposta possa venire da uno dei libri conclusivi de La Repubblica di Platone, l’opera in cui Platone osa sostenere che il miglior governo, a suo tempo possibile, sarebbe stato quello affidato ai filosofi. Ebbene, in un passo Platone, testimone di Socrate – poiché nei dialoghi platonici colui che parla è appunto Socrate – afferma che la felicità autentica è solo quella dei sapienti. Intanto in modo incredibilmente anticipato rispetto a certe riflessioni, ad esempio, di Leopardi (si pensi alla teoria del piacere diffusa nello Zibaldone) Socrate nell’opera afferma che la felicità non è che piacere e il piacere non è che dolore diminuito. Ma proprio perché è dolore diminuito non può essere mantenuto e controllato, e rischia sempre – il piacere – di riversarsi nel suo contrario (lo stesso Seneca afferma che colui che è schiavo del piacere per questo motivo diventa schiavo anche del dolore poiché è debole). Se consideriamo quelle che secondo Platone sono le tre possibili felicità, la prima del sapiente affidata alla conoscenza, la seconda dell’uomo di potere affidata al successo e al controllo degli altri, e la terza dell’uomo comune affidato ai piaceri della vita, ci si accorge che per il sapiente la felicità è acquisizione di conoscenza, per l’uomo ambizioso è il controllo degli altri e per l’uomo comune è il possesso del denaro perché il denaro consente di ottenere tutti i piaceri che si vuole, comprandoli.
Ora però negli ultimi due casi si è sempre esposti alla perdita del piacere acquisito che diminuendo si trasforma in dolore (infatti l’uomo ambizioso può perdere il potere conquistato e l’uomo della strada non vedersi assicurato denaro sufficiente). Solo il sapiente è cosciente che l’acquisizione di conoscenza non potrà mai diminuire, perché le idee che formano la cultura non ubbidiscono alle leggi della materia, per cui ciò che si dà agli altri si perde. Se si dà cultura si arricchisce gli altri ma non si impoverisce se stessi (ciò è espresso da Seneca anche in un passo fulminante di un’altra opera il De brevitate vitae). Ecco dunque perché pochi di noi possono dirsi autenticamente felici, perché non hanno il coraggio e la forza di affidare le proprie speranze di felicità a beni spirituali piuttosto che a beni materiali. Il dramma dell’umanità, credo, sia in questo, e non è un dramma da poco se si considera il fatto che gli stessi beni spirituali sono a volte sfruttati a scopo materialistico (si pensi a tanta arte che si sottomette alle logiche commerciali).