L’ISOLA DELLE NOSTRE CERTEZZE

   di Ermanno Falco

Era il 25 ottobre 1970, lo stadio il mitico San Siro di Milano (dovevano passare altri dieci anni perché fosse intitolato a Giuseppe Meazza); accolti dall’entusiasmo gentile e misurato quanto interiormente passionale della gente sarda accorsa per l’occasione da ogni angolo del continente scendono nell’arena meneghina gli undici ineffabili giovanotti che qualche mese prima avevano compiuto un’impresa che l’isola dei nuraghes non dimenticherà mai.

Maglietta bianca attillata, quasi a voler evidenziare la muscolarità asciutta dei campioni, scudetto tricolore sul cuore, come a gridare, oltre all’orgoglio dei primi, l’indissolubile italianità di chi senza attendersi ringraziamenti ha dato e darà sangue, fatica e sentimento ad un Paese che nelle differenze tra le proprie terre ha sempre trovato un limite ma più ancora la propria grandezza: al cospetto di un’Inter onusta di gloria e trofei si presenta la gagliarda rappresentante di un popolo che grazie al calcio e con l’ausilio fondamentale della grande comunicazione rompe per la prima volta le barriere della nebulosa conoscenza e dell’atteggiamento di sufficienza che spesso si registrano nei confronti di un’isola e della sua gente.

Si inizia con un siparietto curioso: l’ala sinistra, leader indiscusso e già figura mitica del Cagliari e della Nazionale (non dimentichiamo che l’estate precedente c’erano stati i Mondiali messicani) si avvicina impertinente e irrituale a quel monumento di inavvicinabile autoritarietà di Concetto Lo Bello, gli toglie il pallone dalle mani e con un sorriso tra innocente e sfrontato glielo restituisce solo in mezzo al campo, ad un pelo dal fischio d’inizio.

Comincia l’incontro e Riva dimostra sin dai primi minuti di stare attraversando un’era personale che costituisce l’apice di una carriera e di una fama già folgorante e celebrata grazie non solo a quel sinistro terribile che lascia poche chances ai portieri avversari, ma per la completezza del suo atteggiamento in campo, al tempo stesso semplice e grandioso.

Al settimo minuto irrompe Riva (una frase che abbiamo sentito più d’una volta dagli indimenticabili radiocronisti dell’epoca), vanamente inseguito da un nugolo di giocatori nerazzurri, che pure non sono gli ultimi arrivati, e quando come un ciclone il lombardo di Leggiuno si avvicina alla riga di gesso che segna il limite dell’area nemica, al povero Giancarlo Cella da Bobbio non resta che cercare di placcarlo con un tuffo che al 5 Nazioni di rugby avrebbe sollevato ammirazione e applausi. Riva però è semplicemente inarrestabile, tanto che all’astuto centrocampista emiliano non resta altro che abbrancare il pallone con decisione disperata sottraendolo fraudolentemente alla disponibilità di chi stava già armando con rapacità ferina il proprio mortifero sinistro.

Imperturbabile il giudice siracusano, magistrato in campo, senza il minimo fremito dei suoi leggendari baffetti, tende il braccio destro e fischiando con occhi severi assegna la sacrosanta punizione dal limite.

Ricciotti (viva Garibaldi!) Greatti, il regista compagno di merende, con un lieve tocco di destro mette la palla proprio dove vuole lui, che si scaglia come un fulmine sul pallone precedendo avversari trafelati che vengono quasi sbalzati dalla cannonata sarda col pallone che squassa la rete di Lido Vieri e Riva che corre a ritroso a centrocampo fino a concedersi all’assalto festoso dei compagni.

Passa meno di un quarto d’ora e quell’ Iradiddio torna ad imperversare a grandi falcate nella metà campo avversaria; alza la testa, con un lampo degli occhi vede lo stesso compagno dal nome patriottico, gli allunga il pallone con un elegante “esterno” sinistro; quello ci sta, ha capito, e dopo un felice controllo lancia la palla alla propria sinistra, dove “sa” che si abbatterà, deflagrante, la folgore.

Ed è qui che nella fervida immaginazione di Gianni Brera nasce l’iperbole immaginifica, al contempo lirica e realistica, di “Rombo di Tuono”; quello che parte non sembra un uomo, sia pur validamente attrezzato come atleta rapido e potente: gli interisti si vedono piombare addosso un carro di fuoco o un aereo in fase di decollo che sembra spostare l’aria e travolgere tutto ciò che gli si para davanti.

In un lampo la folgore cagliaritana divora il prato, entra in area e fa partire un siluro non si sa se più potente o preciso che gonfia per la seconda volta la rete dei padroni di casa e dei loro increduli tifosi.

Il resto della partita è solo banalità e “routine”, salvo l’esemplare dimostrazione di lealtà regalata da un Riva che davanti alla linea di porta avversaria si astiene dal toccare la palla spedita in rete dal delizioso “scavetto” di Angelo Domenghini.

Sembrava destinata all’eternità la gloria del Cagliari in quella assolata domenica d’autunno in riva ai Navigli e invece il destino infido e beffardo (quell’Inter impotente e atterrita vincerà lo scudetto) bussava già alla porta e avrebbe colpito non più tardi di sei giorni dopo il suo primattore nel prestigioso scenario del “Prater” di Vienna in una partita di qualificazione agli Europei attraverso le sembianze di tale Norbert Hof, viennese di radici materne venete, che con un intervento da tergo malvagio e intenzionale cagionò a Riva la rottura del perone destro con gravissimi danni ai legamenti della caviglia.

Senza il suo bomber il Cagliari molla ben presto la testa della classifica e abbandona piano piano e per sempre il ruolo di grande potenza del calcio italiano, mentre Riva, forte di un fisico esplosivo e di un carattere irriducibile, brucia i tempi del recupero e torna in campo verso la fine di quello stesso campionato.

Abbiamo voluto indugiare su di una sola partita, che peraltro non risulterà neanche decisiva riguardo all’esito di quel torneo, vinto come abbiamo visto proprio dalla squadra che ne uscì con le ossa rotte, perché quei novanta minuti valgono a riassumere i termini di un’intera vita sportiva nonché l’enorme impatto che quegli anni di inaspettata felicità sportiva ebbero per la Sardegna, allora ancora alle prese con i mali storici del ritardo economico e sociale, più che culturale, che nei decenni successivi sarebbero stati quasi completamente eliminati grazie alla tempra ostinata e al valore intellettuale di un popolo antico, unitamente ad una maggiore e migliore considerazione delle sue problematiche da parte di uno Stato più presente e solidale che in passato.

Nell’ambito di un processo di difficile riscatto da millenni di trascuratezza e abbandono da parte di chi volta per volta l’ha posseduta senza amarla ma tutt’al più per interessi meramente materiali, la Sardegna ha potuto contare, oltre che sulle proprie qualità, anche sulla maggiore attenzione procurata dagli allori raggiunti dal Cagliari e dal suo condottiero indiscusso, che da continentale estraneo e per giunta settentrionale, si fece sardo tra i sardi con una vita spesa intensamente per l’isola, sia dentro che fuori dal campo.

Forte, corretto, generoso, rinunciò a trasferimenti assai vantaggiosi per rimanere sull’isola di cui si sentiva figlio e dove piantò, dopo una storia d’amore per quei tempi scandalosa e travagliata, le salde radici della propria discendenza familiare.

In un mondo “fluido” e ambiguo come il nostro, in cui al vantaggio della caduta di tanti fattori d’ipocrisia si accompagna lo spaesamento di chi stenta a trovare utili indicazioni per indirizzare al bene la propria vita, non può che giovare un bell’esempio umano di chi ha vissuto con coerenza e allo stesso modo professione, affetti e responsabilità pubbliche.

Ancor più che un grande campione sportivo Gigi Riva sarà ricordato come un uomo semplicemente degno di questo nome, un eroe straordinario ma quotidiano e umano, da ammirare e possibilmente imitare come un moderno Ulisse che ne vede e ne fa di tutti i colori ma che grazie alla forza di coscienza e intelletto continua a sfidare a testa alta mostri e sirene per tornare a riposare nell’isola delle proprie certezze.

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