Valditariane e bisogni
di Pasquale Sofi
Mi ero ripromesso di non parlare più di scuola, ma è difficile resistere alla tentazione di non segnalare le “valditariane “debordanti che proiettano l’ultimo inquilino del Ministero di Viale Trastevere verso il titolo di peggior ministro della Pubblica Istruzione della storia della Repubblica, in comunione con l’On. Fioroni (colui che aveva risuscitato gli esami di riparazione; tipica ed esclusiva specialità italiana doc). Il Ministro Valditara aveva già fatto inorridire gli addetti ai lavori di provata competenza, con le sue elucubrazioni sul merito (appendice che l’attuale governo ha voluto per il nuovo ministero come se fosse sufficiente un nome a cambiare le cose) esibite in una trasmissione televisiva condotta da Bruno Vespa. In quella trasmissione il Ministro ha dimostrato di possedere idee vaghe circa il mondo della scuola e ricette ancora più strane per migliorarlo: come si fa a dichiarare che la scuola ha smesso di funzionare dal 1975 e che oggi non forma più? Ovviamente ne attribuisce le responsabilità ai decreti delegati; un’antica assurdità che si pensava che il tempo avesse sterilizzata! É vero che a quel tempo l’invadenza di politici e sindacalisti spinse il corpo docente ad arroccarsi in difesa dei suoi presunti privilegi, ma quei decreti furono il primo passo verso un’autonomia didattica fino ad allora sconosciuta e manipolata esclusivamente dalle case editrici. Le cause delle disfunzioni scolastiche sono da ricercate altrove e sembra un’eresia leggere Valditara annoverato tra gli “eminent advisor” dell’associazione Treellle che vanta personaggi di chiara fama che sulla scuola hanno un pensiero quantomeno meno distorto. Sostiene, il Ministro che oggi la scuola, ovviamente a suo dire, “non premia il merito sia degli alunni che dei docenti “perché non favorisce l’apprendimento”, ma in che senso non lo dice. Poi aggiunge una sciocchezza planetaria, ovvero che l’orientamento è un momento di informazione (evidentemente ne disconosce la prioritaria valenza formativa, cosa dimostrata dalla recente lettera ai genitori con allegate note descrittive) da migliorare; concetti da terzo mondo. Il ministro non si rende conto che la velocità, con la quale oggi nascono nuovi mestieri, nuove professioni e nuove occupazioni, richiama ancora una volta i principi del life long Learning e segnala la futilità delle informazioni nel tempo; tra scuola secondaria e università oggi intercorrono almeno otto anni…Ma il coniglio che il Ministro tira fuori dal cilindro è il super professore!!! Ovvero, come lui prospetta, un docente primus inter pares che chiama tutor, con competenze superiori a quelle degli altri suoi colleghi e che si dovrebbe formare chissà dove… (certamente non all’università che, come ebbe a dimostrare a suo tempo la SISS, da questo settore è proprio lontana anni luce). Ignora peraltro totalmente la figura del preside che in quanto leader didattico della scuola (almeno in teoria dovrebbe esserlo…) troverebbe in questa nuova figura un suo duplicato. Altrimenti a che servirebbe il Preside a scuola? Il tentativo poi, anticipato in diretta tv dal Ministro, di alleviare, tramite i revisori dei conti (in che modo?), l’onere amministrativo che grava sulle spalle del preside rinforza il parere che la politica sappia molto poco di scuola. Ha provato mai il Ministro ad immaginare un giovane o una giovane preside passati dal ruolo di insegnante di una scuola primaria a dirigere un Istituto agrario con annessa azienda agricola (vigneti, frutteti, animali vari oltre a macchine complesse sia per la lavorazione che per la produzione) e magari anche completo di convitti per studenti sia maschile che femminile???… Certamente quei neo dirigenti sapranno dirigere ben poco…. e allora il Ministro si accorgerà che non è la stessa cosa quella di gestire un Istituto complesso piuttosto che un Liceo o una scuola primaria. A tal proposito suggerirei un ripasso del capo III del Decreto Delegato 417/74 (probabilmente a lui non particolarmente simpatico) e in particolare dell’art.27 e del suo terzo comma per rendersi conto delle differenze tra le scuole e a riflettere dei conseguenti guasti dell’unicità della funzione dirigenziale. Immagino già la risposta contestualizzandola ad oggi: “non siamo stati noi a volerla…” Troverei opportuno invece, attribuire la personalità giuridica solo agli Istituti che fanno attività lavorative per conto terzi oppure che gestiscono direttamente convitti o aziende loro annesse, ovviamente guidati da presidi con le giuste competenze amministrative, proprio quelle, necessarie, ma che fecero storcere il muso ai più, richieste dalla Buona Scuola. In tutti gli altri casi senza la personalità giuridica le segreterie delle scuole sarebbero più snelle, efficaci e anche efficienti, perché non sarebbero più centri di gestione, amministrativo-contabile e delle carriere, del personale scolastico. Tali operazioni si potrebbero affidare a distretti scolastici amministrativi, di nuova istituzione, ove convergerebbe il personale direttivo (oggi DSGA delle scuole autonome) e gran parte di quello delle segreterie, lasciando alle scuole soltanto il personale utile alla gestione di semplici operazioni di routine (l’anagrafe alunni e poco altro, quale ad es. Il protocollo, il magazzino etc.) Cioè una segreteria essenziale e utile per affrontare la quotidianità. Avremmo in tal modo il preside che tornerebbe ad essere di fatto Capo d’Istituto e potrebbe pertanto svolgere il suo ruolo primario di leader didattico.
Anche in TV il Ministro non ha saputo argomentare qualsiasi forma di analisi sulle cause dei mali della scuola e men che meno ha palesato l’abbrivio di un’idea di scuola al passo con i tempi. Ad es. è noto che l’unica finalità codificata della scuola è la padronanza della lingua italiana! Ebbene la filiera della scuola dal primo al tredicesimo anno (uno in più del resto d’Europa, ma noi siamo l’Italia…) non cura più con sistematica propedeuticità la linguistica (grammatica, analisi del periodo e analisi testuale, privilegiando erroneamente in loro vece la Storia della Letteratura non più come mezzo ma come fine. Pertanto com’è possibile conseguire la suddetta finalità per leggere, scrivere e disquisire in corretto italiano oltre che comprendere e decodificare gli scritti, i grafici etc.?
I bisogni formativi a livello mondiale si sintetizzano con: codifica e decodifica di testi e contesti nella lingua nazionale e in quella internazionale, oltre alla conoscenza delle Matematiche (l’insieme delle discipline scientifiche). E mentre in Italia ci si scontra sulla valenza delle discipline tra quelle scientifiche e quelle umanistiche nessuno si ferma a riflettere sulla qualità del personale che siede sulle cattedre delle scuole italiane. Sono tanti e sono tutti…votanti… É lapalissiano che chi sale in cattedra deve essere un esperto della disciplina che è chiamato ad insegnare, ma questa è una condizione necessaria ma non sufficiente; perché ben altra cosa è l’essere docente, per cui si dovrebbe possedere una competenza ulteriore: la didattica disciplinare. Ebbene nelle scuole italiane abbiamo una miriade di esperti ma pochi docenti e comunque, tranne rarissimi casi, laureati autoreferenziali che operano quali liberi professionisti in un contesto pubblico, ma lontani dalle giuste competenze utili per soddisfare i bisogni formativi dei giovani d’oggi.
Protetti da un sindacalismo becero (che invece di tutelare i propri associati pretende di sostituirsi al potere esecutivo nelle scelte politiche) la stragrande maggioranza di questi operatori della scuola non conosce le didattiche emerse dalla ricerca negli ultimi trent’anni (e pertanto la pratica in uso, che tutti chiamano impropriamente didattica, è quasi esclusivamente la lezione frontale), non sa lavorare in team perché teme il confronto con i colleghi, altrettanti non sanno cosa sia una progettazione per competenze, e men che meno lavorare per competenze, mentre la programmazione serve solo da tenersi nel cassetto per essere riproposta con copia e incolla l’anno successivo. Riflettere sulle intelligenze (secondo Gardner) degli studenti non è pratica in uso nei consigli di classe, ormai diventati sempre più inutili, sebbene siano il luogo deputato alla progettazione in una scuola che si è ammalata di progettite e che propone lavori ben lontani da progetti che possano avere, tranne qualche iniziativa sporadica, una valenza didattica o comunque lontani da poter essere inseriti in una didattica per progetti.
É gravissimo che si cominci a diffondere tra i docenti quell’abitudine insana e perentoria (simile a quella che una volta era prerogativa esclusiva dei docenti delle superiori, soprattutto liceali “quest’alunno non è da liceo”) che adesso si sta facendo strada anche nelle scuole primarie che inviano i piccoli studenti verso le forche caudine di una certificazione sociosanitaria. In questi casi nessuno fa l’esame di idoneità all’insegnamento ai docenti, i quali prima di richiedere una visita specialistica di tale natura, dovrebbero avere espletato ogni possibile strategia metodologico-didattica, utile ad un accertamento di tale responsabilità. Il vero problema in questi casi è la modestia delle competenze didattiche della classe docente.
La didattica è la pratica dell’insegnamento la cui valenza è correlata all’efficacia dell’apprendimento degli studenti e che si realizza da sempre attraverso una rete di relazioni tra i docenti e i discenti. Storicamente in Italia, tale relazione è stata esclusivamente comunicativa: la cosiddetta spiegazione; mentre dovrebbe essere altresì noto che questa è efficace solo se esiste una continua interazione tra l’emittente e il ricevente (la lezione dialogica). Le didattiche più emancipate oggi utilizzano la spiegazione solo per chiarimenti verso chi già conosce gli elementi della relazione ed è pertanto capace di interloquire sull’argomento e non di subirlo passivamente. Pertanto se una lezione frontale viene proposta in presenza o a distanza non vi è alcuna differenza significativa, perché è in genere consuetudine nella scuola italiana “spiegare” argomenti nuovi e di conseguenza le pratiche relazionali risultano essere pressoché identiche. Questa è la lezione logocentrica che limita l’apprendimento alla sola conoscenza e che coinvolge solo marginalmente le intelligenze e le abilità possedute dagli studenti. Se a questo si aggiunge la difficoltà che hanno i giovani, anche laureati, di trovare un lavoro (si vanifica così quell’idea di ascensore sociale che la scuola dovrebbe avere secondo il Ministro suddetto) allora si può capire lo scarso appeal che hanno i giovani nei confronti della scuola.
Altro discorso, invece, è quello dell’utilizzo di pratiche educative capaci di coinvolgere gli studenti; con una base operativa costituita da gruppi, gli studenti lavorano autonomamente interagendo tra di loro su imput preordinati e fissati dai docenti, che sovraintendono i lavori intervenendo solo all’occorrenza. Si esalta così il protagonismo degli studenti in una trama dove il docente è il regista; parliamo in questo caso di didattica laboratoriale che consente di apprendere soprattutto attraverso il fare. Muta così il ruolo e soprattutto l’azione dei docenti che per gli studenti diventa decisamente più incisiva e costruttiva, mentre l’apprendimento non è più circoscritto alle sole conoscenze, ma queste diventano l’elemento cardine di un sapere agito che non è più solo teorico. Significa contestualmente utilizzare le conoscenze per sviluppare abilità e acquisire competenze completando così il processo.
Da ciò, se si vuole cambiare la scuola italiana, serve cambiare la funzione docente che non può più essere un’anarchica professione autoreferenziale, ma un attività educativa collegiale rivolta alla persona per la sua crescita culturale civile e sociale. Quanto al “merito” se il Ministro da uno sguardo all’Europa scoprirà l’EQF un acronimo che fissa gli standard (in termini di competenze certificate) in uscita al termine dei vari cicli di studio utili per l’equipollenza dei vari titoli in Europa. Allora forse si renderà conto che bisogna sostituire il termine merito con quello di competenza; sostantivo indigesto alla gran parte dei docenti italiani.
Una scuola efficace necessita di un buon leader didattico che sappia dare una giusta direzione di senso all’operato della comunità, che sappia essere valido supporto per gli insegnanti e all’occorrenza anche sceriffo (termine usato dai sindacati per dileggio) quando il caso lo richiede. É scontato che tutti gli operatori scolastici dovranno essere valutati con cadenza biennale, a partire dal preside che per suo conto è il primo valutatore del personale docente e ATA. Ovviamente la valutazione più rigorosa riguarda quella del preside e del suo operato. Nei concorsi a posti di preside occorre tornare ai concorsi nazionali per ridimensionare le “sponsorizzazioni” dei soliti noti di destra e di sinistra che operano attraverso i loro ispettori già a suo tempo sponsorizzati.