Grandi uomini, grandi idee

Abbiamo bisogno di idee grandi, uomini e donne capaci di pensare al futuro d’Italia non solo al proprio immediato collocamento. Dove sono? Non ne vedo. Nella sala dove si proiettava il film “Il caso Mattei”, la gente si chiedeva dove siano oggi personaggi visionari come Mattei, capaci di rischiare la vita pur di realizzare grandi infrastrutture e grandi trasformazioni. Oggi un Enrico Mattei sarebbe certamente in prigione per tangenti o per avventure amorose intercettate e divulgate urbi et orbi. Comunque Mattei è stato soprattutto un protagonista della politica del nostro Paese, un personaggio complesso ma a suo modo grandioso, basti pensare alla “sua” politica estera che è rimasta sostanzialmente la stessa: il Mattei dell’Eni ,un colosso mondiale che ha retto a tutto, persino al crollo della Libia nel 2011 e alla feroce macelleria alla persona di Gheddafi cui hanno dato un contributo determinante gli abbagli di Obama sulle Primavere Arabe, che invece furono Primavere Islamiche, le ambizioni sbagliate di quell’interventista di Sarkozy, invidioso del nostro ruolo privilegiato in Libia, gli errori fatali del Governo italiano, Quirinale compreso, trascinato bon grè mal grè in una spedizione punitiva puramente distruttiva, senza un minimo di buon senso, a cominciare da qualsiasi assenza di piani seri, programmi concreti e protagonisti credibili per il dopo Gheddafi che era certo un dittatore e pure odioso, ma teneva in piedi uno stato dove ora ci sono macerie, guerre e i tagliagole del Califfato. Mattei si rivolta nella tomba a vedere i disastri dei successori di quella sua politica lungimirante. Mattei uomo delle sfide impossibili, perché solo il coraggio di misurarsi con le impossibilità è il paradigma della grandezza di chi ama l’impresa. Mattei capitano coraggioso, un personaggio il cui profilo roccioso si staglia nel nostro orizzonte, un audace esploratore di nuove strade, di nuove risorse a volte rischiose persino fuorilegge per il proprio Paese uscito malconcio e umiliato dalla guerra, un imprenditore certamente “pubblico” che ha tuttavia prodotto ricchezza, innovazione e modernizzazione. Il vero problema che si pone oggi ad ogni livello è la modernità. Abbiamo bisogno allegoricamente oggi di grandi uomini i quali fanno correre il pallone, sanno dove mandarlo e sanno che ritorna e poi si va in rete; i brocchi invece inseguono la palla fintanto che stanchi di correre moriranno di se medesimi. Tattica, strategia, regia, visione del gioco. Ma su tutto, il coraggio testardo delle proprie idee anche a costo di rimanere soli a difendere una posizione, il coraggio di battersi anche in minoranza per una causa giusta, per un principio, per una battaglia che si deve fare. Inutile fare politica se non hai il coraggio delle tue idee. Oggi la macchina dell’antipolitica si giova della riduzione drastica del vocabolario politico, della sua esemplificazione brutale, trasformandolo in un codice rovesciato che annulla il dialogo, brucia alle radici la dialettica, la travolge e la supera nel momento stesso in cui l’invettiva esplode annientando ogni forma di replica a meno che non sia più violenta. Ma cosa c’è di più violento del vaffa…? Il crescendo dell’antipolitica non poteva, non può che aumentare su se stesso con un linguaggio minaccioso e squadristico contro il Parlamento (tutto!) da “aprire come una scatola di tonno” ingiuriando ad personam: siete morti che camminano, arrendetevi, verremo a prendervi casa per casa, sarete processati in piazza. Le radici di tutto questo stanno in quella macchina alimentata da rancori profondi da odi ad personam sparsi a piene mani da incitamenti alla delegittimazione e alla criminalizzazione tramite intercettazioni riversate quotidianamente sui media, nei talk show, negli approfondimenti trasformando i faldoni degli interrogatori o delle intercettazioni in una narrazione popolare, spesso con i doppiatori che recitano come in un film gli intercettati, con cui colpire al cuore la credibilità della casta. Casta con C maiuscola, neologismo fortunatissimo emerso dal grembo politico editoriale del “Corsera” che diventerà il vero, unico romanzo criminale della politica della Seconda Repubblica sotto i cui colpi implacabili soccomberà, grazie, infine, anche all’intervento sbriciolante di Grillo e Casaleggio. Slogan minacciosi, percorsi dal turpiloquio e dalle offese sanguinose condite da promesse fantasmagoriche e demagogicamente sparate, atte alla captatio benevolentiae di un pubblico sia di estrema sinistra, una sommatoria di quelli del no tav, no stretto, no autostrade, ecc. sia di destra o della Lega del Veneto, dei piccoli imprenditori strangolati dalle tasse, umiliati dai ritardi dei pagamenti dello Stato che non cessa mai di esercitare arcigni e disumani “espropri” di quel poco che è rimasto. Del resto certa sinistra si è occupata per anni e anni molto più dei procuratori e del Cavaliere che della classe operaia, dei problemi sociali. Ha scelto i pm piuttosto che i ceti bisognosi, ha tifato per le toghe e non per la mission della sinistra con una vocazione elitaria che la faceva parlare, del tutto impropriamente dalla ex catedra etica sulla quale si era auto insediata. Chiamiamola nemesi la salita ai vertici politici nazionali di un tecnico, un esperto di economia, un prestigioso bocconiano con il suo leggendario e sobrio loden. Per qualcuno, per quelli dell’anticasta era una risposta al degrado della politica, del malgoverno, verso un modo nuovo, nuovissimo di farla: largo ai tecnici, agli esperti, moralità e trasparenza, sacrifici, probità, basta con burlesque e cene eleganti, si accolgano le istanze della leggendaria società civile. Abbiamo visto i risultati. Ci sono sempre le invocazioni palingenetiche in nome della società civile. E il tutto si ribadisce in nome dell’antipolitica che non dimentichiamolo mai era il grido di battaglia di Berlusconi allorquando, sempre venti anni prima, disse di lasciare la trincea del lavoro per scendere in politica, in nome e per conto, beninteso della società civile. Società civile, quanti crimini si commettono in tuo nome! Leggiamo i giornali, ci guardiamo intorno e cosa vediamo? Paura, incertezza, instabilità, fallimenti. Il più grande, quello della politica: non si è visto in questi procellosi anni nessun leader capace di alzarsi su queste macerie in grado di sollevarsi sopra gli altri e di sollevarci e di indicarci una meta, un’avvenire, un orizzonte diverso. Siamo il più bel Paese del mondo ma ci crogioliamo nel liquido depressivo della crisi mondiale con una sorta di masochismo tipico di un Paese in crisi di identità, vecchio, bolso, lagnoso, declinante, ipocrita, carente, come si diceva, di autostima.

di Piero D’Andreamatteo

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