PASSIONE PALLAVOLO – RITORNO DI FIAMMA DI UN AMORE MAI SPENTO
La vita è piena di luoghi comuni, convincimenti collettivi che, nati da impressioni isolate e generiche, si sedimentano nell’universo sentire acquisendo a mano a mano autorevolezza e credibilità sempre maggiori, sino ad assurgere ad assiomi inconfutabili da cui purtroppo spesso discendono malintesi e pregiudizi, potenziali inneschi di odio razziale e bellicismo preconcetto.
I luoghi comuni allignano nell’animo umano pervadendone lo spirito e non si creda che essi vengano ridimensionati dai progressi della scienza o dalla diffusione della cultura: forse è proprio dai settori più brillanti dell’”intellighenzia” che partono a guisa di provocazioni le derive più perfide e perigliose, suadentemente esposte da personaggi che godono di grande stima e attenzione mediatica.
Lo sport, che per natura e contenuti dovrebbe essere immune o comunque abbastanza lontano da tentazioni primatiste e segregazioniste è spesso invece territorio d’incursione di bislacchi pensieri insufflati da cattivi maestri in cerca di cattedra con megafono, interessati solo ad ottenere, costi quel che costi, la massima pubblicità alle loro idee.
Risale a pochi giorni la desolante “prodezza” della curva della Lazio che ha pensato bene di festeggiare la vittoria nel derby urlando ai tifosi avversari l’epiteto di ebrei, come se appartenere a quella comunità rappresentasse una vergogna o una condizione da “minus” all’interno di un contesto nazionale di cui evidentemente non si ha alcun sentimento o cognizione.
Ovviamente quanto accaduto, che si aggiunge a una nutritissima serie di insulti razziali ad atleti anche a volte della propria squadra, lanciati un po’in tutti gli stadi da branchi di sciagurati che si spacciano per “ultras”, non va ingigantito per non fare d’ogni erba un fascio e dare così adito a possibili fenomeni di emulazione.
Chiunque voglia segnalare e colpire un male sociale potenzialmente capace di arrecare danno deve, per propria coerenza, accuratamente evitare di estendere all’indeterminatezza la riferibilità dei fatti, pena la conseguente impossibilità a porvi rimedio.
L’attività sportiva, sia come pratica che come spettacolo, ci insegna molto della vita ed è in grado di riverberare i suoi valori anche nei comportamenti e abitudini che apparentemente parrebbero a essa estranei. Il serio impegno di preparazione, la sana competizione, il rispetto dell’avversario e del pubblico, la volontà, cementata nell’acciaio, di non arrendersi se non quando le regole lo impongono, di non esaltarsi oltremisura dopo una vittoria e non abbattersi dopo una sconfitta: sono principi che lo sport trae dalla sapienziale etica delle civiltà antiche per riproporle ai popoli e agli Stati del mondo arricchite dal fascino immortale del gesto atletico e dall’ammirazione che esso suscita.
Attraverso l’assimilazione e la concreta applicazione di questi valori l’atleta acquisisce potenza e fiducia in sé stesso sino a raggiungere, anche se non sempre, vittorie insperate contro chi è ritenuto favorito da pronostici sballati perché basati, appunto, su luoghi comuni.
Ecco allora che il razzismo nello sport è un assoluto “non senso”: se si accogliessero le teorie primatiste non avrebbe nessun senso gareggiare in quanto comunque risulterebbero vincenti gli esponenti della espressione etnica ritenuta superiore secondo una presupposta e assai risibile legge di natura (ve lo ricordate lo spassoso “scorno” del Fuhrer alla vittoria olimpica di Jesse Owens?).
Per ogni tipo di sport un fenomeno può nascere dappertutto: non sono il colore della pelle né la religione né la cultura né il clima che possano determinare la maggiore o minore propensione di un singolo o di un popolo verso l’eccellenza in qualsivoglia disciplina. Semmai una certa influenza possono avere le circostanze sociali e soprattutto il livello di organizzazione del sistema sportivo, evidentemente diverso da Paese a Paese. Ove c’è migliore cultura sportiva ci sono maggiori investimenti e maggiori probabilità di elevazione qualitativa dei praticanti, la cui certificazione è data dai medaglieri delle più importanti manifestazioni internazionali, Olimpiadi “in primis”.
Oltre alle risorse economiche sono fondamentali le basi tecniche, frutto della sagacia manageriale e scientifica dei massimi dirigenti di ogni Federazione, presupposto indispensabile a risultati di prestigio meritati e durevoli.
Solo così si ottengono e si spiegano i successi nelle più prestigiose competizioni continentali e quando essi si reiterano con costante regolarità non si può parlare di semplici “exploit” ma di obiettivi perseguiti e raggiunti attraverso strategie pianificate e razionali.
In Italia c’è uno sport che un tempo veniva considerato “non idoneo” alle caratteristiche etniche, somatiche e comportamentali del nostro popolo. Il volley (ma io che mi nutro di quotidiano pane nazionale lo chiamo e lo chiamerò la pallavolo) è disciplina che richiede doti fisiche peculiari, date le particolari tipologie di azioni fisico-muscolari e di concentrazione mentale che richiede.
Intanto, bisogna essere alti e qui non ci piove, perché una ragazza o un ragazzo di statura importante ha bisogno di minore tensione per elevare le braccia ben al di sopra della rete per effettuare la schiacciata o per opporre il muro all’attacco avversario. Poi, bisogna avere una bella velocità mentale per inserirsi efficacemente in uno schema che sarà stato pure “chiamato” con dita e sguardi, ma che va comunque eseguito alla perfezione trasformandolo da progetto a fatto compiuto nel giro di pochissimi attimi e senza tentennamenti e leggerezze.
In nessun altro sport, inoltre, è così determinante il rapporto tra equilibrio personale e sincronia cerebrale e dinamica con i compagni di squadra, tanto da richiedere una concentrazione altissima e soprattutto perdurante tutto il corso della partita.
Gli incontri sono sempre avvincenti proprio perché, non essendo possibile che ogni giocatore di una squadra sia sempre al massimo, il punteggio cambia con estrema rapidità e con esso la cosiddetta “inerzia” della partita.
I tecnici migliori sono quelli che sanno meglio agire sulla mente e sul cuore degli atleti, motivandoli e sviluppando in loro al più alto grado possibile la consapevolezza nei propri mezzi, mai disgiunta dallo spirito di unione che qui è più forte che in qualsiasi altro gioco di squadra.
Alla luce di queste considerazioni chi vive di luoghi comuni e di pregiudiziali discriminanti non scommetterebbe un centesimo sulla possibilità di successi dei nostri atleti, data la struttura fisica e l’inclinazione psicologica degli italiani, più portata all’individualismo che alle forme di collaborazione pianificata.
E invece nella pallavolo siamo da trent’anni i padroni del mondo (sia pure con qualche pausa), capaci di “uccidere” sportivamente gli anni ’90, conquistando tre titoli mondiali consecutivi e altrettanti campionati europei, tanto da realizzare un ciclo stratosferico che ha pochi eguali nella storia dello sport internazionale.
Sotto la guida di un “guru” venuto dall’Argentina e, come tanti suoi connazionali, capace di innamorarsi dell’Italia e da questa largamente ricambiato, certo Julio Velasco da La Plata, la pallavolo azzurra ha prima strabiliato il mondo e poi lo ha fatto rassegnare sotto il peso di una “dittatura” durata un intero decennio e rappresentata da un “dream team” che, grazie a ricambi effettuati con gradualità ed equilibrio, si è ampiamente meritato l’epiteto di “generazione di fenomeni”.
A Velasco, che dal 2019 ricopre la carica di Direttore Tecnico del settore giovanile, subentrò il brasiliano Bebeto che completò il mirabile trittico di vittorie avviato dal platense vincendo il Mondiale del 1998.
Nel primo ventennio del 2000 l’Italia, pur confermandosi tra le migliori potenze, mancò la conquista di un ulteriore titolo mondiale, ma soprattutto non ottenne nessuna vittoria alle Olimpiadi, pur accedendo quasi sempre al podio, tanto che l’alloro olimpico resta per ora una chimera e un obiettivo da raggiungere, magari già a Parigi 2024.
Dopo le cocenti delusioni del Mondiale del 2018, peraltro disputate in casa, e delle Olimpiadi di Tokio del 2021, il timone della pallavolo azzurra passa nelle mani di Ferdinando (Fefè) De Giorgi, uno dei ragazzi di Velasco, che esordisce con la splendida vittoria all’ Europeo dell’estate 2021, una stagione che sarà ricordata tra le più gloriose dell’intero sport italiano.
Sull’abbrivio del successo continentale Fefè e i suoi ragazzi si presentano col dovuto rispetto di tutti ma senza timori reverenziali ai Mondiali dello scorso settembre, svoltisi tra Polonia e Slovenia.
Dopo aver dominato la fase a gironi con tre “cappotti” rifilati a Canada, Turchia e Cina, gli azzurri superano agli ottavi Cuba, ai quarti, dopo una battaglia accesissima, considerata la vera finale, i cugini francesi, alla semifinale la Slovenia, sino a fare propria con serena autorità la finale battendo con pieno merito i padroni di casa polacchi.
Il Paese è in festa come nelle occasioni più importanti e i Campioni al loro rientro vengono ricevuti al Quirinale dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, rivolto a De Giorgi dice:” …ho visto tecnici che avevano gesti di rimprovero, la sua tranquillità ha contribuito a dare serenità alla squadra”.
Dalla più alta carica dello Stato, che di questo sport se ne intende, giunge la più autorevole conferma che un allenatore di pallavolo, prima che un tecnico, deve essere manager, psicologo e padre dei ragazzi che gli sono affidati.
Arde ancora più forte la fiamma della passione, corroborata dalla bellissima vittoria degli Under 20 agli Europei svoltisi in Abruzzo, tra Montesilvano e Vasto, con finale vinta ancora contro la Polonia nel catino incandescente del nostro Palaroma lo scorso 25 settembre.
Montesilvano e la pallavolo: un amore intenso e collaudato, grazie alla passione travolgente dei tifosi e alla sensibilità e preparazione di tecnici e dirigenti che, in uno con illuminati imprenditori locali, hanno costruito nel tempo una vera “Città della Pallavolo” a vantaggio soprattutto dei ragazzi e rispettive famiglie, fondamenta e collante indispensabile per l’intero movimento cittadino.
Una cronaca quotidiana che col tempo si fa storia ed epopea. Ma su questo avremo modo di tornare.