La Scuola al tempo del CoronaVirus
di Pasquale Sofi
Una volta la chiusura di tutte le scuole d’Italia avrebbe rappresentato un segnale deciso e un monito forte per la popolazione tutta, anche perché erano rarissimi i casi sia di chiusura che di sospensione delle lezioni da parte del competente prefetto. I presidi allora (la cosa credo debba valere ancora oggi) potevano farlo solo in caso di grave emergenza, giusto disposto del DPR n. 417, uno dei famosi decreti delegati del 1974. Con la delega da parte dei prefetti ai sindaci, la sospensione delle lezioni è diventata automatica al primo…. fiocco di neve, con la conseguenza che in un paese leggermente più serio del nostro, tanti anni scolastici sarebbero stati annullati, per non aver raggiunto il numero minimo di giorni di lezione. Come al solito in Italia, diventa una questione di lana caprina quella dell’interesse superiore a sospendere un servizio essenziale come quello scolastico e spesso la gravità della motivazione viene rappresentata da una banale nevicata, talvolta neppure tanto copiosa. A tal proposito, quale giudice è mai andato a controllare e vagliare quale sia la consistenza dei rischi di uno studente in caso di neve? Oppure quali siano le ragioni della mancata pulizia delle strade da parte dell’ente locale? Provocatoriamente eliminerei la scuola dai servizi essenziali, tanto è inflazionata la sua chiusura da non meravigliare più nessuno.
Comunque, oggi come ieri, scuole chiuse si dovrebbe tradurre come momento di eccezionale gravità! E quello attuale purtroppo lo è!
Assisteremo, a detta del Ministro dell’Istruzione, ad un nuovo prolungamento della sospensione con l’anno scolastico ormai vanificato nelle sue monotone, ripetitive e stantie prassi consolidate, ma rabberciato attraverso sedicenti processi didattici moderni, improvvisati nella quasi totalità delle “scuole del regno”. La scuola digitale in Italia non è una pratica consolidata, ma è piuttosto una rarità, mentre l’uso delle applicazioni più importanti di “office”, per gli elementari bisogni quotidiani odierni, è ancora sconosciuto a troppi docenti.
È vero che la scuola italiana è stata sempre autoreferenziale, ma è altrettanto vero che gli standard di qualità sono ancora sconosciuti ai più e di conseguenza parlando di didattiche innovative, quali quelle a distanza ad esempio, non trovano opposizione i tanti millantatori che decantano processi e risultati fantasmagorici, che nella gran parte dei casi si rivelano le classiche montagne che partoriscono topolini. Così sentiremo parlare di lezioni mirabolanti, tenute on line e che, nella pratica, in gran parte si traducono in esercitazioni proposte con il registro elettronico, con whatsapp e con Skype; solo in pochi usano piattaforme e – learning tipo Google meet. Azioni di questa natura non si improvvisano, ma sono efficaci solo se fanno parte di una pratica quotidiana, non occasionale ed opportunamente progettata. Il coronavirus, nello scacchiere educativo nazionale, ha il merito di mettere a nudo le criticità della scuola italiana nei suoi processi educativi; non solo per l’importanza dell’uso delle nuove tecnologie e dell’l’utilizzo formativo delle piattaforme e – learning, ma per la fragilità di una didattica imperante, cosiddetta trasmissiva, che impedisce allo studente di imparare attraverso il fare, con l’utilizzo metodico e sistematico di metodologie laboratoriali coinvolgenti e socializzanti.
Una decina di anni addietro la didattica digitale si affacciava alla realtà scolastica Italiana e contestualmente subiva una mutazione il concetto di ambiente di apprendimento, che si emancipava da condizione esclusivamente psicologica in ambiente anche fisico; ovvero non più l’aula con banchi tradizionali, ma moduli componibili in postazioni di lavoro variabili tali da rendere le lezioni più dinamiche e accattivanti, non più cattedratiche, ma laboratoriali. Nascevano così nuove disposizioni funzionali all’impostazione della lezione, con la lavagna Lim (versione sviluppata della smart) a dominare, connettere e fare interagire i diversi ambienti di lavoro. Cominciava anche la corsa delle grandi aziende internazionali al business delle piattaforme per la didattica. In tali fermenti brillava per assenza il nostro Ministero della Pubblica Istruzione che, a mio parere, avrebbe dovuto proporre una sua piattaforma nazionale, inclusiva dello stesso registro elettronico, anche per non far scadere una necessaria integrazione didattica in uno sterile quanto inutile meccanicismo tecnologico – operativo, come solitamente avviene quando gli autori delle proposte sono i non addetti ai lavori. La funzione delle nuove tecnologie, come qualsiasi altra metodologia o sussidio didattico, rimane sempre quella di mantenere vivo e implementare la tensione del filo educativo tra docenti e discenti, tra insegnamento e apprendimento… Ma chi avrebbe potuto farlo allora al Ministero? Una volta il cuore della ricerca didattica nazionale pulsava intorno agli ispettori centrali, oggi gli ispettori sono reclutati non per concorso ma come…. i portaborse… e valgono molto meno dei vecchi… ispettori periferici. La ricerca didattica non solo sembra morta, ma è affidata oltre che ai privati, ad iniziative sporadiche, con buone pratiche solo registrate e mai coordinate e sviluppate (invalsi docet). Sembra si siano arresi anche quelli che negli ultimi decenni, più di ogni altro, l’hanno sostenuta: i Salesiani.
Affrontare una didattica digitale, poi, non è cosa semplice, anche per i messaggi equivoci provenienti dagli organi superiori che un giorno vietano l’uso in classe del telefonino, mentre l’altro chiedono agli studenti di usare Whatsapp. Per tacere inoltre delle strutture carenti e dei docenti che osteggiano anche una banale distribuzione di banchi diversa da quella tradizionale.
Il mio pensiero va alle delusioni subite dalla compianta Silvia Di Paolo, docente del D’Ascanio di Montesilvano prima di concludere la sua breve vita terrena in servizio al Da Vinci di Pescara. Ero già in quiescenza quando lei era diventata leader regionale della didattica digitale (che oggi viene impropriamente chiamata lezione a distanza) e, sebbene le mie competenze nel campo fossero limitate, ci sentivamo spesso e mi raccontava delle diatribe, anche accese, riscontrate con i colleghi che andavano dalle critiche acide e mai argomentate a comportamenti poco edificanti: un ostracismo irrazionale e poco consono ad una comunità educante.
Sulla scorta del magnifico esempio che i nostri medici e infermieri stanno palesando a tutto il mondo in questo difficile momento, auspicherei uno scatto d’orgoglio anche da parte dei nostri docenti in maniera tale che l’onda lunga dell’insegnamento in rete non cessi al termine dell’epidemia e che, comunque vada, ogni scuola rifletta su queste ed altre pratiche per svilupparle cercando di ottimizzare, al contempo, il lavoro dei docenti e il tempo studio degli studenti.
E – learning, peer education, cooperative learning, learning by doing, didattica laboratoriale, classe ribaltata, simulazioni di realtà (giochi di ruolo), etc… sono metodologie che, se pianificate ed applicate, tendono a realizzare nell’allievo un apprendimento attivo, dinamico e capace di integrare contestualmente il sapere, il saper fare e il saper essere.
Il coronavirus ci ha anche fatto conoscere nella realtà quanto la nostra Costituzione sia stata stravolta nei suoi valori fondanti per l’egoismo famelico delle regioni del Nord.
Il becero regionalismo ha squilibrato in quest’ultimo decennio (complice il colpevole concorso della Corte Costituzionale) le varie potenzialità territoriali in tutti i settori della vita sociale e ha allargato una forbice preesistente già intollerabile.
Agli evidenti squilibri di un Servizio Sanitario che viaggia a più velocità, analogamente nella Nazione, si accomunano quelli degli arredi e delle strutture scolastiche che, rallentando una proficua crescita culturale, impediscono ai territori congiuntamente alle ataviche carenze infrastrutturali, di produrre ricchezza.
In questa parte d’Italia, infatti, i redditi delle singole famiglie non sono tutti tali da garantire a ciascuno dei loro figli, oltre ai libri di testo, un pc o un tablet, e agli Enti Locali non è consentito, per carenza di fondi trattenuti altrove, di coprire tali carenze. Art. 3 della Costituzione inapplicato! È la storia degli ospedali che si ripete! Per fare lezione ci si deve accontentare di avere quattro mura sicure, e spesso neanche quelle o tutt’al più ci si deve accontentare della sporadica concessione di qualche briciola: la palestra del D’Ascanio a Montesilvano ne è un esempio.
Credo sia giunta l’ora di pretendere con forza, anche nel nostro piccolo, che la fibra raggiunga contemporaneamente, e non in più anni, tutti gli angoli remoti di Montesilvano, perché è diritto di tutti gli allievi, non solo di quelli che abitano le zone più favorite della città, avere la possibilità di accedere ad un’offerta didattica di qualità senza discriminazioni. Serve spendere meno per manifestazioni effimere utili solo a rabbonire gli elettori e più per mezzi e strumenti che aiutino la crescita culturale, civile e sociale dei nostri ragazzi. Ne vale del loro futuro da noi adulti abbondantemente compromesso.