Soli in una stanza…. La fenomenologia patologica degli “Hikikomori”
di Raffaele Simoncini
Solo e pensoso i più deserti campi
Vo mesurando a passi tardi e lenti,
E gli occhi porto per fuggire intenti
Ove vestigio uman la terra stampi….
L’incipit del sonetto petrarchesco Solo e pensoso, con i suoi meravigliosi e celeberrimi versi, può rappresentare, in estrema sintesi, il paradigma della ricerca della solitudine, quale momento di vera introspezione dell’uomo solo con sé stesso, sottratto ai condizionamenti devianti della vita sociale. Questa ricerca, pertanto, è stata da millenni e fino a tempi recenti, una modalità di elevazione spirituale altamente positiva, desiderata, ambita.
La percezione della solitudine, nei nostri tempi, sembra essere mutata radicalmente: essa viene ricercata raramente, se ne ha paura, la si sfugge, se e quando ciò sia possibile, ed è accompagnata, sempre, da una chiara ed evidente valenza negativa. In quest’ottica deformante, si collocano fenomeni certamente inquietanti, drammaticamente patologici. La fenomenologia degli Hikikomori sembra confermare tale assunto. Conosciuto sin dagli anni Settanta del secolo scorso, la cultura occidentale ha iniziato a studiare e analizzare questo problema sociale solo a partire dagli ultimi decenni. Il termine giapponese Hikikomori è difficilmente traducibile in italiano: potrebbe significare, approssimativamente, rannicchiati su se stessi. I giapponesi intendono riferirsi, quando parlano di Hikikomori, a un fenomeno ritenuto tutto nipponico e piuttosto recente, che riguarda all’incirca un milione di giovani con una strana patologia comportamentale: essi non riescono a vivere nella società, si rinchiudono nelle proprie stanze, rifiutano ogni contatto con il mondo esterno per periodi anche di anni. Non ci troviamo, di certo, in presenza di una delle tante manifestazioni eccentriche, tipiche delle crisi “esistenziali” che toccano un po’ tutti gli adolescenti delle società industrializzate; questo fenomeno è indubbiamente una patologia invalidante che induce questi giovani a vivere la loro vita all’interno di un mondo completamente privato, di solito la loro stanza. In essa non è concesso di entrare ad alcuna persona, fatta eccezione – ma non sempre – per la madre quando porta il cibo. L’interferenza materna costituisce, così, l’unica rottura di un programma esistenziale monotono, ripetitivo, compulsivo-ossessivo. Ma perché tutti questi giovani hanno comportamenti così patologici? Che cosa fanno chiusi nel loro unico mondo possibile della propria stanza? I sociologi e gli psicologi sociali giapponesi sono stati i primi a denunciare una società in cui domina la cultura dell’arrivismo, del successo a tutti i costi, dell’efficienza portata ai massimi livelli. Questo è, a ben riflettere, il modello ricorrente di ogni società industrializzata e quindi tocca anche noi, coinvolgendoci direttamente. In questo “clima socio-economico” è abbastanza ricorrente l’emergere di situazioni di malessere, di senso di inadeguatezza, di doveri e responsabilità che schiacciano le personalità più deboli o in fieri. La cultura giapponese pretende una precoce omologazione, un precoce adattamento a ciò che essa stessa richiede con impellenza e chi non è all’altezza è come rifiutato, marginalizzato. Gli Hikikomori sono dei rifiutati, sono dei disadattati e, rannicchiandosi in se stessi, si barricano contro la vita che li attende, li aspetta. Chiusi nelle proprie stanze, essi trascorrono il tempo ascoltando musica, vedendo la TV, giocando ai videogiochi e, soprattutto, navigando in Internet. I ricercatori giapponesi concordano nel ritenere che questi giovani “in esilio volontario” abbiano connesso la loro condizione alla fruizione delle nuove tecnologie e, così facendo, abbiano abbracciato relazioni virtuali al posto di quelle reali, concedendo al cyberspazio di prendere il posto della loro vita. Questa è, senza mezzi termini, una forma patologica di alienazione tecnologica, con cui si rinuncia al benessere sociale, sublimandolo nel benessere virtuale. La trafila abituale della crescita giovanile è sempre stata quella di vivere la vita in mezzo agli altri: per gli Hikikomori è invece fondamentale annullare, rifiutare la comunicazione con gli altri, con il mondo esterno. “L’incubo internet”, lapidaria definizione di un ingegnere informatico giapponese, sin dagli esordi studioso del fenomeno rannicchiati su se stessi, potrebbe essere fronteggiato, se si presentassero alcune condizioni ricorrenti, non a caso dette rimedi paradossali: in famiglia si dovrebbe parlare di più, il figlio dovrebbe avere la possibilità di esprimere liberamente le proprie preoccupazioni, le proprie difficoltà e paure, il padre dovrebbe diventare una presenza vera e, nell’educazione dei figli, le madri non dovrebbero avere una “delega” in bianco; infine, le madri dovrebbero essere più affettuose e meno ossessionate dagli esiti scolastici dei figli. Sono realmente praticabili questi rimedi? Mentre il Giappone si interroga sul proprio futuro e su quello delle nuove generazioni, in termini di efficienza, primato tecnologico etc., può capitare – e, ahimè! capita sempre più con frequenza – che un figlio possa dire no e smetterla di giocare al giapponese perfetto e possa scegliere di “immolarsi”, anima e corpo, alla causa dell’Hikikomori. Nel frattempo, qualche persona che conta, qualche politico buontempone, grezzo e ignorante (nel senso etimologico del termine: che non sa, che ignora…) avrebbe escogitato, con tanto di pubblicazioni su quotidiani nazionali e su siti internet, una soluzione “meravigliosa”: niente più stanze, niente più pareti, niente più porte, ma nuove case, pensate secondo l’antica tradizione dell’ambiente unico e aperto. Insomma, una sorta di modernissimo open space! In fondo, perché perdere tempo a parlare con dei ragazzi immaturi, perché ascoltare le loro difficoltà, le loro paure, perché riflettere su una società così alienante, se basta il tocco magico di un buon architetto creativo per risolvere (!!!) il problema? Lasciando ben volentieri ai giapponesi la facoltà di esprimere i loro giudizi su pubblicazioni eccentriche come quelle ora ricordate, credo sia un errore clamoroso ritenere il fenomeno degli Hikikomori un grave problema sociale della cultura giapponese, solo della cultura giapponese. La patologia dei rannicchiati su sé stessi non è scomparsa in Giappone, semmai si è diffusa ulteriormente ed è diventata ancor più complessa e difficile da fronteggiare; ma, fatto ancor più preoccupante, essa è ormai diventata un “patrimonio negativo” di tutte le società industrializzate, nessuna esclusa. Basterebbe soffermarsi solo sulle gravi carenze delle dinamiche familiari giapponesi, di cui si è appena detto (esse sono ampiamente rintracciabili anche nel tessuto sociale italiano), per comprendere la particolare gravità di una fenomenologia patologica che, forse in forme diverse e comunque problematiche, si è affacciata/diffusa, da alcuni anni, anche nel nostro universo occidentale. Una soluzione? In ogni tema che riguarda l’uomo c’è sempre spazio per una soluzione: basterebbe volerla e perseguirla, ma il condizionale è d’obbligo, perché non si intravvedono ripensamenti seri e critici sui nostri modelli di sviluppo socioeconomico. Appunto, tali ripensamenti sarebbero, utopicamente, dei rimedi paradossali….