In questo silenzio – L’angolo della poesia
L’angolo della poesia
a cura di Gennaro Passerini
La poesia che presentiamo in questo numero, tratta Dal libro di Micol (Passigli editori, Firenze, 2008), è una accorata, straziante meditazione, attraverso la quale un padre cerca di poter dire qualcosa del dolore incolmabile di un genitore che perde drammaticamente la figlia. Così Marco Tornar, nella sua Prefazione, sintetizza le modalità di scrittura poetica di Daniele Cavicchia: “(..) Ciò che convince nella poesia di Cavicchia, oltre all’intelligenza musicale della scansione narrativa, è lo strenuo battere dell’onda emozionale del ricordo, della ferita del tempo, sulla scabra e ruvida scogliera del nulla, della dolorosa declinazione dialogica di un nome perduto (..)” Il commento della poesia è affidato al prof. Raffaele Simoncini.
In questo silenzio
In questo silenzio che non conoscevo
ogni cosa viene incontro
come nelle macerie di un castello
dove il tempo misura sé stesso
e il silenzio troppo pieno al di sotto del cielo.
Eri già andata prima che gli amici
intonassero la tua canzone
prima ancora che le rose bianche sfiorissero
avevi partecipato al divenire del mondo.
Li vedevo in ginocchio a mani giunte
ignari di come finissero le illusioni.
Nel giorno ogni cosa continua a vivere
Nel ricordo dei nidi che ad ogni viaggio contavi
Nelle figure che nelle nuvole indovinavi
In quel sorriso che era solo tuo
Nello sguardo lontano col quale vedevi.
Tutto è avvenuto in questa casa
dove il tempo non misura
e la data solo un rinvio
e tra silenzio e silenzio ogni lacrima
sopporta il peso di uno sguardo.
Il sovrapporsi di due silenzi, di due distanti e incomparabili silenzi, sembra animare e dare un senso a questi toccanti versi. E, come sempre accade nello scorrere dei momenti di quella che chiamiamo “vita”, c’è necessariamente un prius e un posterius: c’è un silenzio che viene prima, che precede e che, violento e indifferente, riesce a vanificare tutto un corredo di speranze, di attese, di ghirigori della mente, di illusorie proiezioni verso un indefinito futuro; è questo il silenzio che non conoscevo, è questo il silenzio che frantuma in un attimo ogni effimera consistenza di un presunto reale e che lascia le macerie di un castello. E, per altro verso, c’è il silenzio sentito, raccolto, meditato, di chi partecipa, nel momento di profondo cordoglio, al rituale dell’addio terreno: li vedevo in ginocchio a mani giunte, ignari di come finissero le illusioni. Gli amici di Micol, quelli che intonavano la tua canzone, nel loro dolore, non avrebbero mai compreso, né era nelle loro attese di vita, che tu avevi partecipato al divenire del mondo; il mondo, il loro mondo reclamava un telos, un fine, un essere dentro il fluire della realtà, un dasein, lasciando in uno sfondo senza contorni definiti il Sein, la riflessione sul significato ultimo dell’esistenza. Chi ha vissuto, in tutta la sua violenza, il dolore senza parole, afono, perché dire è molto più semplice/inutile – che tacere, sente la pressante presenza di un silenzio troppo pieno al di sotto del cielo. Ogni momento del tempo che misura sé stesso è rievocazione: un avvicendarsi di frammenti di vita quotidiana, di tracce mnestiche sfuggenti in cui Micol è leggera, impalpabile, vaga, nel suo muoversi tra nidi, figure immaginate come presenti nell’immaginario fervido, con quel sorriso che era solo tuo. Tutto è accaduto ove il tempo non misura, in quella casa che era di Micol: ora, il silenzio di chi resta si confronta con il silenzio dell’addio, con un “sempre” che è svuotato di tutto, a-dimensionale, a-logico. Resta, però, tanto arcana quanto interiormente inafferrabile e struggente, ogni lacrima che sopporta il peso di uno sguardo. Il peso a volte intollerabile, altre volte ricercato, quasi agognato, quello che si nutre di un legame inestricabile, è l’unicum che riesce ad offrire i contorni netti e la sollecita presenza di un compagno fedele e ineffabile: il silenzio di un dolore.