Prima persona plurale: umuntu ngubuntu nbantu
di Mistral (num. Luglio 2019)
Umuntu ngubuntu nbantu è un’espressione in lingua africana che significa una persona è tale solo con le altre. A molti lettori è più nota la semplice parola ubuntu, che spesso formatori e oratori ostentano in quelle occasioni in cui si vuole dare enfasi alla persona. Forse ciò che si conosce meno è che il termine ubuntu rimanda al concetto di fratellanza, radicata nell’identità stessa africana, i cui principi sono stati enunciati dal pastore anglicano keniota John Mbiti. L’ubuntu è stato anche il motivo ispiratore della Truth and Reconciliation Commission (TRC), ovvero della Commissione per la verità e la riconciliazione, presieduta dall’arcivescovo anglicano Desmond Tutu. Quella commissione, istituita all’indomani della liberazione di Nelson Mandela, mise sotto processo tutti coloro che avevano commesso delitti durante la vergognosa parentesi dell’apartheid, ma volle applicare un modello di giustizia alquanto inedito. Non furono emesse condanne esemplari, come forse ci si sarebbe aspettato, ma dopo aver ascoltato le numerose vittime delle ingiustizie inflitte dai bianchi ai neri del Sud Africa i carnefici ebbero modo di beneficiare dell’amnistia a patto che avessero confessato i loro delitti. Una storia incredibile che insegnò al mondo che non era impossibile riconciliare un intero popolo, seppur ferito per anni da crudeli violenze, con chi si era macchiato di efferati crimini, anzi si poteva fare di più reinserendo nella comunità chi aveva offeso in virtù del grande valore che ha la “persona”. Se la Commissione avesse condannato quegli esseri umani, quantunque rei di aver violentato altri esseri umani, gli africani superstiti, in conseguenza proprio di un atto ritenuto disumano, avrebbero disumanizzato anche se stessi. Il principio forte alla base dell’ubuntu è dunque insito nel fatto che non basta esistere come essere umano, ma ciò che più conta è dimostrare in ogni momento della propria esistenza di possedere l’ubuntu, ovvero considerarsi una persona solo attraverso un’altra persona o, per essere più chiari, se si dimostra di manifestare la propria umanità abbracciata a quella dell’altro. Per un africano che crede nell’ubuntu non è dunque pensabile che una persona possa essere concepita sola, in quanto la sua umanità è connaturata alla comunità che, a sua volta, è viva in quella persona.
Ma questo concetto, così radicato nella cultura africana, da noi si limita a essere ostentato solo nelle aule di formazione? Sebbene possa sembrare una provocazione, non si può negare che in un corso, per accedere al quale si è forse anche dovuto pagare, si viene a creare un clima emotivo tale da rendere più propenso il discente a riflettere su determinati concetti. Il punto è invece un altro. Fuori dall’aula, fuori da qualunque ambiente protetto, ci si rende conto che la realtà propone modelli di egoismo in cui la persona realizza se stessa a spese degli altri. Esempi ci vengono proposti dal mondo della politica nazionale quanto locale, che ha scelto di abbandonare la visione a lungo termine per una a breve che ottiene riscontri immediati quando parla alla “pancia” degli elettori; altri esempi ci vengono offerti dal mondo economico che ha imparato ad agire sulle paure dei consumatori inducendoli a comprare attraverso l’ammaliante arma della persuasione; e che dire quando proviamo a spostare l’attenzione verso la società in cui ci confrontiamo quotidianamente? Anche in essa sembra che l’incontro con la diversità abbia fatto posto all’istinto di isolarsi, di alzare muri al posto dei ponti. Addirittura il professor Stefano Zamagni, apprezzato economista, in una recente intervista nell’aprile di quest’anno per Avvenire, parla di aporofobia, parola di derivazione greca che significa disprezzo del povero. L’aspetto che più sconcerta è che questo sentimento non si registra tra la popolazione benestante, ma «la guerra sociale oggi è stata scatenata dai penultimi nei confronti degli ultimi, perché le élite e i ricchi non hanno nulla da temere dalle politiche redistributive di cui parlano i governi. Da noi, in Italia e nell’Occidente, semmai è la classe media ad essere tornata indietro». Insomma siamo una società che si comporta non proprio secondo la filosofia ubuntu, al contrario siamo impermeabili all’altro in quanto tutto lo spazio che avremmo dovuto lasciare libero per fargli spazio è occupato dal sé e da tutto ciò che riguarda noi stessi. Ma che cosa ci sta succedendo? Abbiamo trovato conveniente scindere l’individuo e la materia di cui è fatto dalla persona e dunque dallo spirito che lo caratterizza. Per parafrasare il pensiero di Jacques Maritain, l’uomo contemporaneo ha perso il mordente, sembra che le conquiste più importanti, quella della sua libertà e della sua personalità, non lo attraggano più di tanto. È come se questo percorso, indubbiamente più difficile, sia stato sostituito dalla via più comoda che vede l’essere umano incamminarsi verso l’individualità materiale, dominata dalla legge del prendere per sé. Imboccando questa direzione, inevitabilmente si atrofizza, fino a scomparire, la personalità che di contro avrebbe potuto aprirsi a una comunione con l’altro. I legami umani su cui si fonda lo spirito ubuntu sono stati sostituiti dalla società consumistica con le più semplici azioni di «connessioni» e «disconnessioni» a cui i social media ci stanno inducendo. Come non dare ragione a Bauman quando dice che l’uomo contemporaneo è alla ricerca continua di molte «seconde scelte» quali scuse per allontanarlo dallo sforzo di dedicare tempo all’altro, infatti «è lo stato dell’ “essere tentati” ciò che in realtà desideriamo, non l’oggetto che la tentazione promette di consegnarci. Desideriamo quello stato perché è un’apertura nella routine. Nel momento in cui siamo tentati ci sembra di essere liberi: stiamo già guardando oltre la routine, ma non abbiamo ancora ceduto alla tentazione, non abbiamo ancora raggiunto il punto di non ritorno. Un attimo più tardi, se cediamo, la libertà svanisce e viene sostituita da una nuova routine. La tentazione è un’imboscata nella quale tendiamo a cadere gioiosamente e volontariamente». Chi allora vorrà sentire parlare di ubuntu non dovrà fare altro che iscriversi a qualche corso di formazione motivazionale e provare in quell’ambiente controllato l’emozione che questo pensiero “esotico” sarà in grado di suscitargli, ma appena fuori dall’aula abbia la forza di non scoraggiarsi e di provare a reagire se la pratica tenderà a discostarsi dalla teoria.