A che punto è la Scuola?
di Gabriella Toritto
Nelle ultime settimane diversi sono stati gli episodi di cronaca nera imputabili ad adolescenti, coinvolti in atti da codice penale.
Molti si chiedono: Le famiglie dove sono? La scuola che cosa insegna?
Ma esiste ancora la scuola?
La scuola di un tempo, dove i ruoli erano rispettati, dove
l’insegnante era l’Insegnante e dove la famiglia non interferiva nelle dinamiche che si consumavano all’interno delle classi, confidando nelle decisioni del maestro, non esiste più.
Oggi a scuola molti giovani non vogliono impegnarsi. Studiare costa sacrificio: ore e ore seduti e concentrati a leggere, comprendere, memorizzare. La posizione statica e la concentrazione che lo studio richiede non si confanno a giovani che non riescono a stare fermi, che sono in preda alle pulsioni, né vogliono apprendere.
Molti sono gli studenti che presentano a scuola scarsa autocensura e che si distinguono per un turpiloquio generalizzato, al di là del genere. Gli adulti non sono da meno. Sembra ormai che la parolaccia sia stata proprio sdoganata.
Nella speranza di essere ancora in tempo per modificare qualcosa, a mio avviso urge una revisione dell’istituzione Scuola. Così come è gestita, fatte le dovute eccezioni, non può che tradire completamente il fine educativo che le appartiene e fare ricadere sulla società il proprio fallimento.
Tanti sostengono che la scuola sia influenzata dai poteri forti, quali l’economia, la finanza. E’ probabile, poiché oggi si presta maggiore attenzione a formare il “lavoratore” piuttosto che l’individuo. La realtà, tuttavia, evidenzia che la scuola non è in grado di formare né il lavoratore, né l’individuo. Il “lavoratore” non si forma con l’alternanza scuola-lavoro. E l’allievo non viene formato come “Uomo”.
Alla società occorrono innanzi tutto veri uomini prima che bravi meccanici, idraulici, ingegneri, medici. Se nell’individuo non c’è l’Uomo” allora avremo, come accade molto spesso, manager capaci dell’esercizio più sadico del potere con i propri sottoposti. Gli esiti di tali condotte ricadono inevitabilmente sulla società tutta.
A scuola la formazione non coincide con l’istruzione. L’istruzione è il “passaggio” di contenuti mentali da una testa all’altra. L’educazione, invece, è cura della formazione del sentimento di una persona. Il sentimento si impara, è un contenuto culturale. Il sentimento è diverso dalle pulsioni.
Dai fatti di cronaca e da quanto accade nelle scuole si assiste a giovani che non conoscono la risonanza emotiva dei propri sentimenti. Per loro non c’è differenza fra insultare un professore o prenderlo a calci, fra corteggiare una ragazza o violentarla. Molti giovani non hanno la risonanza emotiva di una differenza reale. Sono privi di sentimenti. I sentimenti non si hanno in natura, sono culturali, si imparano in famiglia, così come sono stati appresi anticamente dalle tribù primitive che raccontavano miti, dalle nonne che raccontavano storie per insegnare la differenza fra il Bene e il Male, fra le cose giuste e le cose ingiuste.
Gli stessi miti greci offrivano una galleria di sentimenti, di passioni rappresentate da divinità come Zeus, il potere, Atena, l’intelligenza, Apollo, la bellezza, Dioniso, la follia. Ai nostri tempi, purtroppo, non ci sono più i miti, e nelle scuole si dà poca importanza alla Letteratura, la quale ci insegna l’amore in tutte le sue declinazioni. Ci narra il dolore, la tragedia, la disperazione, la noia.
Se un giovane non impara a conoscere tali condizioni di sofferenza, come farà a riconoscere e gestire i propri stati d’animo? Accade quindi che, come sostiene il professor Galimberti, filosofo e psicologo, il giovane sta male e non sa spiegarne la causa, poiché “non possiede il vocabolario dell’apparato sentimentale”. E, se uno è privo di sentimenti, può commettere qualsiasi azione, come i bulli che, non possedendo un linguaggio, si esprimono con i gesti.
La società contemporanea ha imposto l’apprendimento del linguaggio informatico che trova ampio consenso a discapito della letteratura, della lettura. Generalmente in classe leggono due o tre studenti, gli altri sostengono le interrogazioni ricavando qualche informazione da Google. Diversi sono gli studenti che non sanno sfogliare un dizionario, altri non comprendono un testo scritto, altri ancora non sanno che dopo il punto ci vuole la maiuscola. C’è chi non sa scrivere in corsivo! Si assiste a un analfabetismo di ritorno. L’informatica concorre a ciò, riducendo il linguaggio a poche parole.
Sempre il professore Galimberti afferma che “se si hanno poche parole in bocca, non si hanno tanti pensieri in testa, poiché i pensieri sono proporzionati alle parole che si possiedono”. Dunque se ho poche parole, penso poco. E, quando un Popolo pensa poco ed è incolto, come noi Italiani, allora quel popolo perde su tutti i fronti, soprattutto sul fronte economico e storico, oltre che sociale e politico.
La scuola fino ai 18 anni dovrebbe essere luogo di formazione dell’Uomo, a prescindere dagli indirizzi di studio intrapresi. Senza l’Uomo la società è persa. Invece oggi si presta attenzione alla cultura della “prestazione”. Anche nei licei non si svolgono più i temi, sostituiti da prove sulla comprensione di un testo scritto. Galimberti vede in tale scelta la cancellazione del valore della soggettività del tema che, a quanto pare, alla scuola non interessa poiché la società esige solo prestazioni.