Il ciancialone a Silvi
di Alessio Basilico (num. Dicembre 2018)
Nell’ultimo venerdì di giugno, nella piazza antistante la chiesa di S. Liberatore, viene bruciato il “ciancialone”, un cono fatto di canne di altezza di cinque o sei metri. Il falò è solo l’atto finale di un rituale di socialità prevalentemente maschile, almeno nella sua fase di preparazione, che ha inizio una settimana prima, quando gruppi di uomini cominciano a procurarsi la materia prima nelle campagne limitrofe. Si passa poi a costruire con le canne e le corde il ciancialone in uno spiazzo posto poco al di fuori del centro storico. Il consumo di vino (anche in dosi abbondanti) è un elemento di forte coesione e di socializzazione durante tutta la fase di preparazione che si svolge, ovviamente, al di fuori delle ore lavorative: nel tardo pomeriggio e nel fine settimana. Il ciancialone, una volta approntato, viene trascinato lungo la via principale del centro storico, via San Rocco, fino alla piazza dove viene bruciato. Le donne, assenti durante la fase di preparazione, partecipano con enfasi all’accensione e al falò.
Testimonianze storiche di feste solstiziali simili risalgono all’epoca romana. Sulle colline, secondo Cesare e Strabone, venivano accesi falò per tenere lontani gli spiriti maligni. Lo stesso accadeva nelle aree di cultura celtica, dove potevano essere associati anche a sacrifici umani.
Con la diffusione del cristianesimo le antiche feste pagane non furono abolite, ma assorbite nella nuova religione. I fuochi del solstizio d’estate vennero dedicati, in molti luoghi, a S. Giovanni Battista la cui ricorrenza venne fatta cadere il 23 giugno. Proprio in questa data, in un altro comune abruzzese, Roccamontepiano, in località Grava, dove sorgeva l’antico centro della cittadina, si celebra il palio dei fuochi di san Giovanni. Ma il falò sacro trova manifestazioni similari anche nel periodo natalizio con le farchie: quelle di Fara Filiorum Petri sono, per costituzione e forma, simili al ciancialone silvarolo.
A quest’ultimo viene associato un racconto agiografico del tutto particolare. In un passato non ben determinato, che si colloca tra Medioevo ed epoca moderna, lo sbarco di pirati barbareschi sulle coste spinse un giovane di Silvi, di nome Leone, ad avvicinarsi al loro accampamento con una torcia in mano. Il fuoco della torcia, alimentato da una forza oscura e miracolosa, divenne così alto e luminoso che i predoni spaventati, credendo che si trattasse di un esercito e non di un singolo individuo, ripresero il mare. Secondo altre versioni la luce fu così intensa che i pirati furono accecati. Leone divenne santo e patrono della città. Senso di precarietà, invasione del proprio spazio di vita, paura del diverso, del predone islamico, protezione offerta dal santo si mescolano in questo racconto agiografico e aggiungono un significato ulteriore al fuoco che avvolge il ciancialone nel centro storico di Silvi a fine giugno.
Gli stessi elementi sono rintracciabili in altri falò abruzzesi, come in quelli già citati di Fara Filiorum Petri. Il periodo storico e le circostanze del primo fuoco miracoloso sono, in questo caso, assai più precisi. Nel 1799 l’incendio di un querceto avrebbe fermato le truppe napoleoniche del generale Coutard dirette verso Guardiagrele. Il fuoco, scatenato da S. Antonio, fermava un esercito di illuministi e di miscredenti e gli impediva di saccheggiare le campagne circostanti.
In conclusione, se da un punto di vista sociale quello silvarolo è un rito di socialità maschile, dal punto di vista culturale si configura come un fenomeno di intenso sincretismo religioso, che sovrappone ai riti del solstizio d’estate la celebrazione di un santo locale, e che trova corrispondenze in altre ricorrenze simili sul territorio abruzzese.