LUOGHI NON SPAZI per rigenerare le nostre città
di Vittorio Gervasi
Vi annuncio la sfida che attende nei prossimi anni tutti gli amministratori locali: trasformare gli spazi urbani in luoghi di civiltà. È una sfida innanzitutto culturale che a ben guardare riguarda tutti noi. Quanti spazi pubblici ci sono in ogni città, in ogni paese, in ogni frazione? Tanti. Perché li chiamiamo spazi? Perché, spesso, sono solo aree urbane ben delimitate. E se diventassero invece luoghi, cioè punti di incontro, di aggregazione, di convivialità per esprimere una identità culturale?
Torniamo indietro con gli anni. Un tempo la parola urbe indicava la città degli edifici al contrario della parola civitas che indicava la città delle anime. Comprendete che quanto si parla di progettazione urbanistica, ancor oggi, si parla dell’urbe ma non certo della civitas e quindi si riduce tutto a programmare l’uso degli spazi senza renderli dei luoghi pensati per chi li vivrà. Nel mondo greco si utilizzava la parola polis, che indicava il rapporto tra la città ed i suoi cittadini. E qui già si sana la dicotomia tra urbe e civitas.
Il mondo greco, in realtà, quando parla di polis aveva già chiaro che serviva una riflessione autenticamente politica per dare vita ad un progetto di città inclusivo, che mettesse in rapporto la città con i suoi cittadini attraverso una progettazione che valorizzasse le relazioni e quindi il bene della comunità piuttosto che il bene dei singoli.
Pensiamo ai paesi che mantengono tutt’oggi una conformazione che rispecchia il modo di pensare di chi ci ha preceduto e che tanto ha influito sul modo di concepire un centro urbano. Troviamo sempre la piazza centrale, vero luogo di aggregazione che identifica una comunità. Rappresenta il simbolo della vita cittadina. Troviamo poi il palazzo del governo generalmente in posizione opposta rispetto alla cattedrale. I due poteri, temporale e spirituale, in posizione centrale ma distinta nel rispetto delle reciproche funzioni. E poi il mercato, luogo di scambio e di economia del territorio.
In tutti questi luoghi si sviluppava e cresceva la vita di una comunità. Qui si respiravano i tratti distintivi di ogni comunità. Tutt’oggi nei paesi che mantengono questa conformazione basta una passeggiata in questi punti nevralgici per comprendere le peculiarità di quella terra e la qualità delle relazioni tra cittadini. Nelle città moderne cosa è accaduto? Dove ha prevalso il turbo capitalismo, è stato incentivato lo sviluppo finalizzato a massimizzare l’interesse individuale a discapito dell’interesse collettivo; un esempio è l’assenza di luoghi simbolo di una comunità. Luoghi identitari capaci esprimere il valore di un territorio. Luoghi di aggregazione capaci di fare sintesi tra gli interessi di tutti i cittadini. Purtroppo il modernismo ha prodotto profonde fratture culturali e sociali. Pensate all’edilizia popolare, alla creazione di quartieri periferici dove concentrare una bassa qualità dell’abitare. Oggi serve ricucire pezzi di territorio esiliati rispetto alla vita civile. Ancor meglio, serve rigenerare il tessuto connettivo di ogni città.
Permettetemi un paragone. Chi conosce l’arte della tessitura conosce anche la differenza tra trama e ordito. Quando si tesse, il telaio usa due fili: uno per la trama, che tesse orizzontalmente il tessuto, ed uno per l’ordito, che lo tesse verticalmente.
Costruire una città è come tessere, bisogna coltivare le due dimensioni, quella dell’urbe e quella della civitas, per dare un’anima a tutto quello che si realizza, così da rendere ogni spazio – anche il più piccolo – un vero luogo del buon vivere perché pensato a misura di cittadino. La sfida è aperta e rappresenta l’impronta che segnerà il passaggio di questa nostra generazione.