ITALIANI BRAVA GENTE? GLI ITALIANI IN GIRO PER IL MONDO…. (2° parte)
ITALIANI BRAVA GENTE?
GLI ITALIANI IN GIRO PER IL MONDO…. (2° parte)
di Raffaele Simoncini
Nella breve indagine per temi che sto tentando di sviluppare, vorrei parlare di alcune delle molteplici forme di razzismo, che hanno contrassegnato la presenza italiana in America e Australia, tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento. Nei Paesi ora citati vi era un effettivo bisogno di braccia per lavorare, ma una tesi, diffusasi in poco tempo, manifestava una dura presa di posizione razzista verso gli italiani. I lavoratori privilegiati erano quelli del Nord Europa, perché le istituzioni scolastiche offrivano garanzie di formazione e basi culturali; gli italiani venivano a loro volta suddivisi tra “gente del Nord” e “gente del Sud”, perché quest’ultima rappresentanza sociale era prevalentemente analfabeta. E siccome le realtà italiane erano oggettivamente differenti (nel Nord le scuole funzionavano meglio ed erano abbastanza presenti nel tessuto sociale urbano, nel sud erano praticamente assenti…), i lavoratori ricercati erano prevalentemente quelli della “gente del Nord”. Non stupisce, dunque, che il problema divenne “politico” in tutti i sensi, fino ad arrivare a dure leggi restrittive e ad assurde classificazioni razziste. Un politico, che mirava a diventare governatore del Mississippi, così cercava il voto dei fanatici americani, nel 1923: “Sono una razza inferiore. L’immigrazione non risolve il problema del lavoro: gli italiani sono una minaccia e un pericolo per la nostra supremazia razziale, industriale e commerciale”. Non è difficile rintracciare, in questo passo, una violenza verbale di tipo hitleriano!!!…. Ancora più sottile era la codificazione e giustificazione legislativa, per limitare gli ingressi degli italiani in America. Una legge, entrata in vigore nel 1921, sospendeva i nuovi ingressi per un anno. Prorogata e perfezionata per alcuni anni, con un trucchetto tipicamente “all’italiana”, come diremmo oggi, prevedeva che dal 1924 in poi ogni nuovo ingresso in territorio americano dovesse essere rapportato alla quota registrata al censimento. Però, questa quota, di cui si dice nella legge, era riferita al censimento del 1890 (di ben 34 anni prima!!…), non certo all’ultimo. Le conseguenze? Italiani, greci, spagnoli, turchi, portoghesi avrebbero avuto diritto ad un pacchetto del 44% di ingressi, e invece, in base alla legge, avevano diritto a un misero 15%!!! Ovviamente, inglesi e tedeschi – con peso economico e politico ben diverso e con preparazione culturale di tutt’altro livello – potevano avere ingressi per il 60%…. Non meno significativi erano gli sprezzanti giudizi che venivano dati sugli italiani nella lontana Australia. Il presidente della Australian Native Association, un tale mister Ginn, così si riferiva al flusso migratorio italiano verso l’Australia: “Che cosa è questo improvviso intensificarsi del fiotto migratorio? C’è forse qualche influenza in gioco? Qualche piano organizzato di penetrazione pacifica? Australiani, all’erta. Badate che la vostra apatia non prepari un terribile risveglio per i vostri figli. Noi non vogliamo che le condizioni sociali ed economiche dell’Australia siano minate da un inevitabile incrocio con gli stranieri, incapaci di sentire le nostre tradizioni, di rispettare la nostra bandiera”. E concludeva: “Si invoca il divieto d’immigrazione in Australia per razze non affini e non confacenti, come quella italiana.” E la parola d’ordine di questo movimento, che all’epoca, contava più di 50.000 iscritti, era diventata: Keep the australian white! che, approssimativamente, si potrebbe tradurre “scegli l’australiano bianco”. Il motivo? Perché gli italiani erano visti e considerati con questa esaltante espressione: “essi sono quelli dell’invasione delle pelli-oliva.” Non stupisce che sia in America che in Australia si parlasse e si scrivesse abitualmente di “evitare la contaminazione razziale”, perché mai gli italiani, sposando australiani, sarebbero stati in grado di “pensare come loro”. E gli immigrati, italiani in primis, venivano accusati paradossalmente di tutto, tanto grande e diffusa era la xenofobia becera e violenta nei loro confronti: si arrivava a incolparli perfino dell’aumento dei prezzi delle derrate agricole o per gli squilibri in Borsa e, ovviamente, per essere costantemente sporchi e ammassati promiscuamente, come bestie, in baracche dissestate, nelle quali prosperavano malattie di ogni tipo. Il modo di vivere degli italiani veniva anche considerato diversamente da qualche amministratore comunale: “Il to herd, l’ammassarsi assieme come animali, non è perfino loro permesso, e sono costretti a stare in costruzioni dette pensioni, dove si deve pagare per viverci e in certe condizioni che non sarebbero tollerate in nessun’altra parte d’Australia!”. L’autorità pubblica, costretta a esprimersi in merito, per le denunce rare, ma presenti nella stampa, così ribatteva: “Dopo un sopralluogo, si rileva che i coloni stranieri vivono nelle stesse condizioni in cui vivono australiani e coloni britannici”. Non era assolutamente vero, ma doveva essere così e così era: la brava gente australiana non avrebbe accettato giudizi differenti, tanto erano pregiudiziali e razziste le loro paure e il loro rifiuto del diverso. Scriveva, nel 1924, in uno studio sui fattori razziali nell’industria, un economista americano dell’epoca, non a caso laureato anche in sociologia: “Gli italiani sono probabilmente i più maltrattati di tutti gli stranieri. Gli ultimi degli ultimi. Disprezzati perfino dagli irlandesi, che sottolineano la loro negritudine, essi non meritano la stessa paga degli altri, dei bianchi, e se uno di loro scompare, non si sa come, non ci si fa molto caso. A fine cantiere, nella costruzione di un canale navigabile, il capomastro, interrogato sul bilancio umano dei lavori, si autoesalta perché nessuno ha perso la vita, ad eccezione di alcuni wops”. I wops erano gli italiani e l’acronimo significava semplicemente without passaport, senza passaporto; dunque, gli italiani lavoravano come illegali. Il termine ebbe molta fortuna in America: wops suonava foneticamente come ùap, ovvero “guappo” e il nomignolo sprigionava una intollerabile xenofobia…
Si continuerà a focalizzare qualche altro aspetto degli italiani brava gente, nei prossimi numeri del giornale, ma una conclusione interlocutoria è d’obbligo; ci sono due modi di porsi nei confronti della storia, della propria storia: o la si cancella e si dimenticano le proprie radici, o la si conosce e ci si dovrebbe vergognare, se si finge di non capirla.