La cultura come vita

Un ricordo di Gian Pietro Calasso regista ed ex docente della D’Annunzio

di Marco Tabellione

Vi sono molti intellettuali che riconoscono di avere avuto un maestro nella loro vita, un esempio ricorrente è quello di Massimo Recalcati, che racconta spesso di una sua professoressa alle superiori la quale lo avrebbe salvato, mostrandogli che esistevano i libri e che la cultura poteva essere meravigliosa. Anch’io, nel mio piccolo e grande universo, ho potuto godere di un’esperienza simile, l’incontro con un uomo illuminato, un maestro il quale mi ha mostrato che cultura non è pedanteria, che il carico di teoria e critica razionale che avevo odiato al liceo, quella mancanza di vita e verità che mi sembrava di cogliere nel modo in cui la scuola presenta la cultura e la scrittura letteraria, ma anche le altre meravigliose discipline inaridite in presentazioni sterili, potevano non essere una condanna. Che ciò che avevo sentito fin da bambino dentro di me e che poi avrei chiamato poesia, aveva comunque a che fare con quel mondo apparentemente pedantesco. Colui che mi ha permesso di compiere il miracolo e unire l’urgenza espressiva che sentivo dentro di me al mondo storico della civiltà, in cui migliaia di autori e persone avevano avvertito le mie stesse sensazioni e avuto le mie stesse illuminazioni, colui che mi ha salvato si chiamava Gian Pietro Calasso e ci ha lasciato l’8 gennaio scorso.

E’ stato il mio professore di Storia del teatro e dello spettacolo all’università di Chieti, ma ha pesato molto di più di un semplice docente, perché dopo aver seguito le sue strabilianti lezioni, ho cominciato a studiare avidamente, a dare esami su esami, e io che avevo odiato il mondo dell’istruzione per il suo carattere inibitorio e per come giunge spesso ad avvilire la cultura, ho deciso grazie a Calasso di diventare insegnante. Ma non è solo questo: Calasso sapeva trasformare ogni argomento colto o addirittura erudito, in una brillantezza di vita, in bellezza pura perché non era semplicemente un intellettuale, era un artista, un uomo illuminato dentro, con tutti i suoi difetti e le sue mancanze.

Regista raffinato, fotografo, esteta, docente universitario, intellettuale in grado di fornire

delle letture inedite della contemporaneità; Calasso è stato questo e molto di più. Difficile

isolare un’opera o ripercorrere le tappe della sua carriera artistica; forse concentrarsi su un

saggio che appare come una vera illuminazione, potrebbe risultare più proficuo. Il saggio

in questione che vorrei ricordare, è Lo spettacolo come il sogno e il gioco della società.

L’ipotesi di fondo del saggio è affascinante e inquietante allo stesso tempo; Calasso

descrive la storia dello spettacolo come storia di una dimensione onirica collettiva

dell’umanità; affondando le mani nelle teorie di Freud e Jung e partendo dall’idea del

sogno come strumento di compensazione e dunque di riequilibrio psicologico

dell’individuo, Calasso attribuisce la stessa funzione all’arte e soprattutto allo spettacolo

nella versione teatrale. Calasso nota così che la crisi del teatro nella contemporaneità

potrebbe corrispondere ad una crisi della facoltà onirica, in pratica la fine del teatro come

arte di massa equivarrebbe ad una riduzione della capacità di sognare a livello collettivo.

L’inaridimento onirico corrisponde ad una fase di particolare materialismo e razionalismo

della società contemporanea, che ha portato ad una riduzione drastica della

frequentazione del teatro e dell’arte drammatica, ma anche ad una riduzione dalla

capacità di influenza dell’arte cinematografica.

Calasso, bisogna dirlo, ha scritto però molto di più, ha lasciato un’autobiografia intensa, a

volte commovente, comunque sempre illuminante grazie all’esempio della sua esistenza di

artista e intellettuale. E poi ci sono i suoi film, Calasso è stato un regista acuto e raffinato.

E forse uno dei massimi crucci è stato non aver potuto realizzare un film su una novella di

Herbert George Wells Il paese dei ciechi, sicuramente uno dei racconti migliori del celebre

scrittore inglese di fine Ottocento. Ma per me Calasso è stato soprattutto un insegnante,

l’insegnante che mi ha acceso e irradiato, che mi ha mostrato la via, o meglio gli spazi da

percorrere, e che mi ha aiutato ad intravederli, magari anche indirettamente. Risento

ancora l’inflessione della sua voce, la sua capacità di improvvisare, di creare lezioni

sublimi sul niente, semplicemente lasciandosi andare. E la forza delle idee e delle sue

riflessioni era così trascinante che alla fine dell’ora – non c’era verso – bisognava andare al

bar e concludere degnamente la serata. E lì tra i tavolini si continuava a discorrere di

arte, sogni, nuovi mondi, creatività, e ad ascoltare le sue parole. Credo che questo sia

insegnamento, questa passione, questo vibrare del cuore e della mente, questo svegliarsi

alla bellezza e alla profondità.

Daria, moglie di Calasso, mi ha ripetuto il suo motto, potremmo dire il principio dei principi:

etica, estetica e logica. Erano i suoi tre fari, e li offriva ai suoi studenti, ai suoi lettori, agli

spettatori dei suoi film. Dai tempi dell’università non l’ho più rivisto, la vita va in altri posti,

si prende altri spazi. Però lo sentivo spesso al telefono, mi mandava i suoi libri, le sue

pubblicazioni. Daria mi ha riferito, dopo avermi dato la notizia, che era fiero di quello che

sono diventato. A pensare a queste parole mi viene da piangere, perché non lo so cosa

sono diventato, insegnante, scrittore, poeta. Semplicemente una persona. Però una cosa

lo so, quando entro in classe e cerco di coinvolgere oltre la routine i miei alunni, io mi

ispiro, ancora dopo tanti anni, a lui, a Gian Piero Calasso, che Chieti e l’Abruzzo hanno

avuto la fortuna in una passata stagione tra gli anni 80 e 90 di avere come docente

universitario.

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