NON PIANGE PIÙ L’ARGENTINA

Messi fa il Messia e l’Argentina è “Tricampeon”

 

   di Ermanno Falco

Quella terra che si estende dalle spume dell’Atlantico per finire sulle creste della Cordigliera, quando dell’oceano non ti resta neanche il ricordo; quella pianura senza orizzonti, sfiancata dal verdazzurro illuminato delle praterie e dei fiumi larghi come laghi, ampi come il mare; e poi quelle cime vertiginose delle Ande, mura fisiche e psicologiche innalzate in faccia ad altri popoli e ad altri mari; e ancora le città, in equilibrio precario tra vecchia Europa e polveroso Far West: in una parola l’Argentina, Paese mitico di una promessa ancora oggi solo parzialmente mantenuta, dove convivono lo spirito dinamico dei pionieri, l’autoritarismo arrogante e classista dei “conquistadores” e l’umanità straripante e dolente di un proletariato scapigliato e meticcio.

   La nazione dove l’attrazione fisica tra i due sessi ha saputo sublimarsi in musica, ritmo, movimento, sino ad offrire al mondo il turbine simbiotico dell’eros struggente che si chiama tango, incontro, studio e combustione di sensi accesi, sguardi, desideri e ardenti doni di sé.

   Il posto del mondo dove è nato Jorge Luis Borges, lirismo puro, amico del sogno che affascina e avverso ad ogni banalismo populista, in contrapposizione altera al difetto maggiore dei suoi connazionali: il conformismo patriottardo e ignorante.

   La stessa provenienza geografica di Papa Bergoglio, ma radici umane profondamente diverse, come è facile che accada nelle terre di frontiera: i piani alti della società per lo scrittore dagli avi anglo-spagnoli con una significativa componente protestante; la colonna di un’emigrazione italiana povera e speranzosa il gesuita dagli avi astigiani, “povero tra i poveri” destinato a diventare Pontefice nel nome del Santo di Assisi.

   Un Papa che da quando è salito sul Soglio di Pietro non ha mai rinnegato la propria appartenenza alla sensibilità e alla cultura argentina, fatte entrambe di umana semplicità e schiettezza di modi e di pensieri, propria soprattutto dei ceti meno abbienti che, come accade del resto un po’ in tutta l’America Latina, vengono letteralmente “dimenticate” dal potere politico che appare quasi sempre intento a conservare e consolidare le proprie ricchezze e privilegi.

   L’Argentina, terra di indicibile sofferenza, di ingiustizia classista e di depressione sociale, si aggrappa alla gloria sportiva come placebo con cui si spera di lenire lo squilibrio nella ripartizione della ricchezza ingentissima del territorio, i soprusi e le violenze ancora spesso impuniti delle passate dittature militari, nonché le disfatte belliche come quella, ancor cocente, inflitta loro dai britannici nel 1982 alle Falkland.

   Il pallone e lo sport come veicolo di riscatto sociale: un film già visto in altri tempi ed in ogni angolo del pianeta; qui però il fenomeno assume connotati del tutto peculiari e ne tinge l’approccio, lo stile e le ricadute sociali dei colori originali ed esclusivi della Pampa, della Cordigliera e della “Tierra del Fuego”.

   Il modo di giocare degli argentini, ancorché sottoposto all’asfissiante processo di globalizzazione che sta omogeneizzando, sterilizzandolo, il calcio moderno, è cadenzato, elegante, virile, con tocchi felpati che rivelano la classe innata dei suoi protagonisti, capaci di prolungati “surplaces” seguiti da improvvise accelerazioni, come se un matador nell’arena, al posto della muleta con le mani, accarezzasse con i piedi la sfera di cuoio per poi indirizzarla al bersaglio con abilità e precisione. O come due ballerini di tango che si studiano con lento incedere sino a “strappare” il ritmo chiudendo l’intesa come si conviene e senza perdere altro tempo.

   “Albiceleste” per la terza volta Campione del Mondo grazie ad una fortunata e vincente combinazione di estro personale e granitica determinazione di una “esquadra”determinata e coesa. Una “Seleccion” apparsa in perfetta equidistanza tra la compattezza utilitaristica di stampo europeo del team diretto da Cesar Luis Menotti, che nel ‘78 diede il primo alloro mondiale ad un’Argentina sottoposta al duro giogo della dittatura militare del generale Videla (che peraltro condizionò pesantemente svolgimento ed esito finale della manifestazione giocata in casa sui terreni pesanti della fredda fine dell’autunno australe e in un bruttissimo clima politico-sociale), e l’accecante luce individuale emanata a Mexico ’86 dall’astro Maradona, protagonista assoluto di quella edizione, consegnata alla storia non solo per la seconda stella cucita al petto dagli eredi di Di Stefano, ma per le due indimenticabili reti, quella della “mano de Dios” e l’altra “del siglo”, dopo aver dribblato mezza squadra avversaria, marcate dal “Pibe de oro” nella partita dei quarti di finale contro l’Inghilterra.

   Dall’alto della sua classe cristallina unita ad una condizione fisica perseguita e mantenuta attraverso abitudini di allenamento e di vita irreprensibili, Lionel Messi ha guidato con suadente fermezza i suoi compagni di squadra, mentre Diego Armando Maradona li dominava dall’alto della propria traboccante personalità di uomo diretto oltremisura sia in campo che fuori, tanto da eccedere sovente in esuberanza, prodigalità di risorse fisiche e voglia di vivere troppo al di sopra degli schemi consentiti ad un atleta.

   La “Pulce di Rosario”, che in passato qualcuno con ingiusta cattiveria ha definito “un pollo freddo” è un ragazzo che, forte di una educazione che lo rende in ogni occasione calmo e misurato, possiede un carattere di ferro rinforzato vieppiù dai problemi di salute legati alla crescita affrontati e superati nel corso dell’adolescenza.

   Da piccolo gli fu diagnosticata una disfunzione organica del meccanismo della crescita che gli creò non pochi ostacoli fisici e psicologici, tutti brillantemente scavalcati grazie al suo amore per il calcio, al talento, ma soprattutto al suo carattere disciplinato e volitivo, supportato dal calore dei familiari che gli sono stati sempre vicini prima, durante e dopo la sua consacrazione professionistica avvenuta in Spagna nella lunghissima militanza nelle file del Barcellona.

   Sarebbe arduo e del tutto inutile elencare le caratteristiche tecniche e le vittorie colte da Messi nel corso di una carriera ormai ultraventennale. Ciò che risalta agli occhi di un osservatore che non si limita all’analisi sportiva è la solidità d’animo di un piccolo uomo che nonostante i tanti successi e le prodezze infinite sul campo fino a qualche stagione fa non era riuscito ad entrare veramente nel cuore degli appassionati del calcio, neppure nel suo Paese, così facile all’idolatria entusiastica per campioni della pedata bravi a riprodurre lo stigma vociante ed enfatico del proprio carattere nazionale.

   L’ombra di Maradona e forse anche quella di Pelè (che Dio lo abbia in gloria) gravava sulla “Pulce”, accusata peraltro di fare sfracelli in Europa col club catalano ma di non essere riuscito ad essere determinante con addosso la “camiseta” biancoceleste.

   L’addio a Barcellona, la difficile stagione d’ambientamento al Paris Saint Germain: tutto lasciava temere un mesto inizio della fine della carriera del fuoriclasse argentino.

   Era destino che fosse una penisola di una penisola, il piccolo, ambizioso e ancora poco decifrato Qatar ed un campionato mondiale per molti versi anomalo e non convenzionale, vinto dopo un avvio stentato e trasformato man mano in una marcia trionfale fino alla fantastica finale vinta ai rigori con la Francia, a rendere giustizia ad un super campione che a pieno titolo e con indiscusso merito si colloca tra le tre o quattro stelle maggiori che brillano nel ristretto Olimpo dei campioni immortali del calcio mondiale.

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