Gabriele D’Annunzio (Seconda parte)
di Gabriella Toritto
La vita dispendiosa del Vate comportò lo sperpero di cospicue somme di denaro percepite grazie alle pubblicazioni, che divennero insufficienti a coprire le spese. Nel 1910, convinto dalla nuova amante Nathalie de Goloubeff, D’Annunzio si trasferì in Francia, anche al fine di evitare i creditori che lo rincorrevano per i debiti accumulati. L’arredamento della sua villa fu messo all’asta e D’Annunzio per cinque anni non rientrò in Italia. Risale a questo periodo la relazione con l’americana Romaine Beatrice Brooks.
A Parigi era già un personaggio famoso. Le sue opere erano state tradotte e lette e il dibattito tra decadentisti e naturalisti aveva a suo tempo suscitato un notevole interesse. Ciò gli permise di mantenere inalterato il suo dissipato stile di vita fatto di debiti e di frequentazioni mondane, tra cui quelle con Filippo Tommaso Marinetti e Claude Debussy. Pur lontano dall’Italia, collaborò al dibattito politico prebellico, pubblicando versi in celebrazione della guerra italo-turca, inclusi poi in Merope, ed editoriali per diversi giornali nazionali, in particolare per il Corriere della Sera. Tali contributi gli consentirono di ricevere altri prestiti.
D’Annunzio aderì all’Associazione Nazionalista Italiana fondata da Corradini inneggiando a una politica di potenza, opponendo la sua idea di Nazione all’«Italietta meschina e pacifista».
Nel 1914 rifiutò di diventare Accademico della Crusca, dichiarandosi nemico degli onori letterari e delle Università. Ai bolognesi, che gli offrirono una cattedra, scrisse: “amo più le aperte spiagge che le chiuse scuole dalle quali vi auguro di liberarvi”.
Dopo il periodo parigino si ritirò ad Arcachon, sulla costa atlantica, dove si dedicò all’attività letteraria in collaborazione con musicisti di successo, come Mascagni e Debussy. Compose libretti d’opera come Le martyre de Saint Sébastien e soggetti per film come Cabiria.
Lo scoppio della Grande Guerra costituì un turning point per il Vate. Infatti nel 1914 si aprì la seconda parte della straordinaria esistenza dannunziana. La prima parte, dall’adolescenza all’inizio della guerra, fu dedicata all’arte; quella successiva, dalla guerra alla morte, fu offerta alla Patria.
Nel 1915 ritornò in Italia, dove rifiutò la cattedra di Letteratura Italiana che era stata di Carducci e di Pascoli. Iniziò a condurre un’intensa propaganda interventista, inneggiando al mito di Roma e del Risorgimento e richiamandosi alla figura di Garibaldi.
Il discorso celebrativo che D’Annunzio pronunciò a Quarto, il 5 maggio 1915, durante l’inaugurazione del monumento ai Mille, segnò l’inizio di un fitto programma di manifestazioni interventiste, che culminarono con le arringhe tenute a Roma poco prima dell’entrata in guerra, durante le cosiddette “radiose giornate di maggio“.
Quando, ultracinquantenne, si vide preclusa la possibilità di prendere parte alle manovre belliche, supplicò di evitare un tale «delitto contro lo spirito», definendo il suo coinvolgimento «una questione vitale», dettata non dal «desiderio di morire» ma dalla «ragione di vivere»: il vate nazionale aveva oramai indossato i panni del poeta-soldato.
Il conflitto, dapprima come idea e poi come guerra effettivamente combattuta, condizionò profondamente la sua sensibilità e lo convinse della necessità di un impegno politico. Maturò il passaggio da un superomismo estetizzante, pervaso di echi nietzschiani, a una dimensione consapevole e matura della politica.
Arruolatosi come volontario di guerra nei Lancieri di Novara, partecipò subito ad alcune azioni dimostrative navali e aeree. Per un periodo risiedette a Cervignano del Friuli e a Santa Maria la Longa, località vicine al Comando della III° Armata, con a capo il suo estimatore Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d’Aosta.
La sua attività in guerra fu prevalentemente propagandistica, fondata su continui spostamenti da un corpo all’altro come ufficiale di collegamento e osservatore.
Ottenuto il brevetto di Osservatore d’aereo, nell’agosto 1915 effettuò un volo sopra Trieste assieme al suo comandante e carissimo amico Giuseppe Garrassini Garbarino, lanciando manifesti propagandistici. Nel settembre 1915 partecipò a un’incursione aerea su Trento e nei mesi successivi, sul fronte carsico, a un attacco lanciato sul monte San Michele nel quadro delle battaglie dell’Isonzo.
Il 16 gennaio del 1916, a seguito di un atterraggio d’emergenza, riportò una lesione all’altezza della tempia e dell’arcata sopracciliare destra. Purtroppo la ferita, non curata per un mese, provocò la perdita dell’occhio, coperto con una benda. Da questo episodio si autodefinì e autografò come l’Orbo veggente.
Dopo l’incidente passò un periodo di convalescenza a Venezia, durante il quale, assistito dalla figlia Renata, compose e regalò alla letteratura il Notturno. L’opera, interamente dedicata a ricordi e riflessioni sull’esperienza di guerra, fu pubblicata nel 1921. Dopo la degenza, nonostante i divieti dei medici, tornò al fronte. Nel settembre 1916 partecipò a un’incursione su Parenzo e nell’anno successivo, con la III° Armata, alla conquista del Veliki e al cruento scontro presso le foci del Timavo nel corso della decima battaglia dell’Isonzo.
D’Annunzio fu dunque anche uomo politico, oltre che poeta. Naturalmente uomo politico fuori dagli schemi, innamorato di sé, delle sue idee e della sua oratoria. Meno che mai fu politico in occasione della sua prima esperienza parlamentare, nel 1897, quando, già scrittore di chiara fama, si candidò alle elezioni per mostrare al mondo di essere «capace di tutto», come egli stesso rivelò in un carteggio privato. La sua posizione fu aristocratica e antidemocratica. La politica rappresentava per lui una costola della letteratura e, come tale, avrebbe dovuto essere “letteratura in azione”.
Il Vate, nel bene e nel male, rappresentò il padre della società odierna, dagli aspetti più noti (modernità, aviazione, dandysmo) a quelli meno conosciuti. Ad esempio, si deve al poeta abruzzese la coniazione di termini oggi comunemente adottati (“intellettuale”, “beni culturali”), nonché la collocazione del tricolore sulle maglie dello sport italiano, che ebbe origine a Fiume.
Nel 1919 il Trattato di pace di Versailles contemplò il passaggio della città istriana Fiume alla Jugoslavia. Il Poeta-Soldato, dalle smanie eroiche, occupò la città con un centinaio di legionari improvvisati, gli Arditi, provocando a livello internazionale un pasticcio politico-diplomatico che richiese l’intervento del presidente statunitense Wilson.
Fiume, porto adriatico, simbolo della «Vittoria mutilata» del 1918/19, fece da scenario all’esperimento di politica artistica del Vate con il saluto romano, il fuoco, le armi, l’arringa dal balcone con la folla adorante, ripresi di lì a poco dal fascismo col quale l’ideale dannunziano non fu mai integralmente compatibile. Così come D’Annunzio e Mussolini non furono mai sinceramente in sintonia.
L’avventura di Fiume (di cui ricorre il centenario) non sarebbe esistita senza D’Annunzio. D’Annunzio tuttavia non avrebbe potuto intraprenderla se non si fosse avvalso del clima spirituale, sociale, politico che la rese possibile.
La guerra, che D’Annunzio combatté da militare esemplare, come fante, aviere, marinaio, rimanendo gravemente ferito a un occhio, gli fece scoprire quel senso di cameratismo, frutto dell’estenuante guerra di trincea, destinato a diventare l’elemento unificante dell’impresa fiumana.
Quest’ultima, consacrazione del suo ideale di eroe rinascimentale, costituì un laboratorio politico estraneo a tutte le categorie sino allora sperimentate e fu un tentativo inedito di combinare individualismo e superomismo con sentimenti comunitari, di integrare uomo e massa in una sintesi che trovava nel “Comandante” D’Annunzio il collante e l’interprete delle passioni nella loro totalità.
In verità dietro il paganesimo dell’impresa fiumana si celò un progetto più ampio: quello di marciare su Roma e mettere in atto un golpe finalizzato all’instaurazione di uno Stato autoritario.
Il Natale di sangue del 1920 pose fine all’avventura fiumana del Vate e dei suoi legionari nell’Adriatico; riconsegnò all’Italia un D’Annunzio oramai logoro, in declino fisico e deluso dalla politica. Il Poeta tornò allora a essere l’Immaginifico.
Si ritirò, sorvegliato speciale di Mussolini, sulle sponde del Garda, in quello che divenne il Vittoriale degli Italiani.
Quando, alla fine del 1922, calò il tramonto sulla lunga giornata dell’Italia liberale, emersero, più o meno velatamente, tutti i caratteri dell’incompatibilità tra dannunzianesimo e fascismo – e più specificamente tra D’Annunzio e Mussolini – per lungo tempo ignorati dalla vulgata storica. La marcia su Roma – non è più mistero – fu anticipata da Mussolini per prevenire la ventilata possibilità di una pacificazione nazionale guidata da D’Annunzio, che avrebbe relegato il fascismo in posizione secondaria.
Il poeta fu perseverante propugnatore di un riavvicinamento alla Francia – la “sorella latina” che lo aveva ospitato – nonché costante accusatore del «marrano Adolf Hitler, dall’ignobile faccia offuscata sotto gli indelebili schizzi della tinta di calce e di colla ond’egli aveva zuppo il pennello, o la pennellessa […] divenutagli scettro di pagliaccio feroce non senza ciuffo prolungato alla radice del suo naso nazi».