La sfida
di Elio Fragassi – https://www.eliofragassi.it/
In questo periodo di tempesta per la scuola come istituzione, ho sentito tutti parlare ed argomentare, in modo raffinato e sofisticato, di scuola, di didattica, di alunni, di esami ed ho avuto l’impressione che tutti siano in grado di insegnare, anche senza mai calcare un’aula come tali, tranne gli insegnanti che vivono, quotidianamente, lo sconquasso dei valori umani e sociali del tempo e sono chiamati a rimediarvi, senza averne alcun riconoscimento, anzi colpevolizzandoli perché c’è sempre qualcuno pronto a riattivare gli anelli del “tubo oratorio” ([1]) per giustificare, con pedagogistici, altisonanti e magniloquenti articoli e discorsi, l’alunno e sanzionare l’insegnante perché non ha saputo metterlo a proprio agio. Quotidianamente, infatti, leggo di notizie relative a ragazzi e alunni fragili che al primo insuccesso, al primo richiamo, al primo voto insufficiente o nota comportamentale, reagiscono nei modi più impensati come nei casi di cronaca degli ultimi tempi anche con il rifiuto di sottoporsi all’orale dell’esame di Stato; ed allora si dà la colpa alla scuola (quindi agli insegnanti) che non è capace di svolgere il suo lavoro in aderenza ai tempi.
Pare che l’insegnamento sia un abito che tutti possono indossare e, così vestiti, argomentare di scuola, di didattica, di pedagogia, di formazione dei giovani, di programmi, di esami, di educazione, di mete da raggiungere, di apprendimenti, di metodologie, ecc. ecc.
A seguito di questa considerazione vorrei proporre un ricordo personale, tra i tanti che hanno inciso positivamente sulla mia crescita, attorno a questo tema perché in questo tempo di turbolenza per la scuola, io penso sia un bene attivare, da parte di tutti, quei percorsi della memoria per individuare il discrimine, tra comportamenti giusti e scelte meno giuste o sbagliate, che incidono sia sulla vita del singolo che della collettività di appartenenza.
Una seria riflessione sul passato aiuterà i giovani a gettare la campata del ponte sul futuro proponendosi non come guitti, marionette o istrioni da social media ma come attori protagonisti principali della propria esistenza scegliendo, con decisione, coraggio e onestà intellettuale, il proprio ruolo con la consapevolezza che tutto quello che è gratis è privo di valori/e perché non conquistato con le proprie forze e sudore della propria mente.
Allora mi piace condividere un ricordo della mia esperienza di studente.
Siamo, come collocazione temporale, nella metà degli anni ’60 del secolo scorso.
La scuola iniziava il 1° ottobre e la scansione temporale prevedeva i trimestri.
Quell’anno cambiammo insegnante di progettazione con la nomina di un giovane appena laureato in architettura all’università di Firenze.
Era alto, robusto, calvo, con uno sguardo burbero, per nascondere la sua bontà d’animo, con le mani grandi dentro le quali la matita si perdeva tanto che il segno sembrava uscisse dal vuoto generato dalle tre dita che la contenevano. Era giovane e con tono di voce perentorio tanto che le parole delle lezioni sembravano incidersi e scolpirsi nell’aria statica, calma e silenziosa dell’aula scolastica. Il religioso silenzio dell’aula scolastica veniva interrotto, di tanto in tanto, solo dalle correzioni, a voce alta, che faceva girando tra i banchi, dando a tutti gli altri, così, la possibilità di verificare eventuali errori.
Da subito iniziò ad utilizzare un metodo didattico nuovo pretendendo che fossimo, noi allievi, studenti attori del processo educativo e non semplici spettatori passivi del dialogo educativo.
È bene ricordare che eravamo negli anni ’64 – ’65.
Questo suo metodo mi piacque talmente tanto che sentendo di poter esprimere le mie idee mi dedicai a svolgere, con grande trasporto, quello che lui ci chiedeva lavorando intensamente, non solo a scuola ma anche a casa, sentendo l’ambiente scolastico vicino e non ostile.
Alla verifica conclusiva del primo trimestre non volle credere che quegli elaborati erano stati prodotti da me tanto che, dopo avermi richiamato e deriso davanti a tutti i compagni generando un profondo stato d’ansia, mi mise alla prova chiedendomi di fare alcune verifiche in poco tempo ed in sua presenza.
La prova dimostrò che lui aveva ragione ed io avevo barato per cui, al primo trimestre, mi trovai tre sulla pagella.
Attraversai, in silenzio, un lungo periodo con un continuo conflitto interiore diviso tra il pensiero di abbandonare la scuola e lo studio e la voglia della rivincita.
Nacque, in questo periodo, il desiderio del riscatto e della sfida.
Alla fine decisi, in completa solitudine, (perché sapevo che i miei genitori avrebbero avallato il giudizio dell’insegnante) per la sfida convinto che la mia vittoria, come studente attore, (il ’68 –quello vero- era nell’aria) consisteva nel far ammettere all’insegnante l’errore di giudizio.
Allora mi feci spostare su un banco della prima fila –che nessuno voleva occupare- proprio di fronte alla cattedra e cominciai a lavorare con tanta rabbia dentro, in sua presenza senza chiedere mai nulla. Non avendo disponibilità economiche, cominciai a frequentare la biblioteca con letture extrascolastiche per acquisire certezza dei concetti e sicurezza nelle cose che pensavo e facevo. Dopo alcune lezioni iniziai a notare che, sempre più spesso, mentre camminava tra i banchi, si avvicinava e guardava, in silenzio, quello che facevo, senza dire nulla.
Così continuai per tutto il secondo trimestre a lavorare, sia a scuola che a casa, con trasporto, impegno, rabbia e tanta voglia di rivincita.
A conclusione del trimestre ritirò gli elaborati e li chiuse in un armadio, senza dire nulla, per definire la valutazione trimestrale.
Alla consegna delle pagelle, lette e commentate in classe dal preside, fui colpito dal suo voto che era diventato sette.
Con la stessa lena e lo stesso impegno continuai la sfida anche durante l’ultimo trimestre.
Il terzo trimestre si concluse in modo molto positivo (il voto non lo ricordo ma doveva essere otto o nove), ma quello che ricordo, come un momento di liberazione e rivincita, fu quando mi chiamò alla cattedra e mi disse, con il suo perentorio tono di voce davanti a tutti i compagni: “Scusami se mi sono sbagliato su di te nel primo trimestre” e, rivolto alla classe: “Vedete anche gli insegnanti possono sbagliare”.
La sfida, con impegno costante e determinazione, era stata vinta.
Negli anni successivi il nostro rapporto si andò sempre più intensificando tanto che decisi, su suo consiglio, di proseguirne anche gli studi universitari laureandomi in architettura.
Grazie a questa sfida ho imparato a costruire, nel corso della mia esperienza d’insegnante, tanti ponti, tra me e gli studenti, sui quali far transitare ed incontrare le loro esigenze e le loro aspirazioni con le mie pratiche didattiche per crescere assieme e fare da guida nel traghettare i giovani sul palcoscenico della vita attiva non da guitti ma da attori protagonisti del presente e progettisti del futuro.