Castrovalva, il paese che c’è ma non c’è! (seconda parte)
( continua)
L’interno della casa era rustico ma con un fascino particolare. Le mura non avevano subito ristrutturazioni evidenti e deturpanti ma una naturale manutenzione. I mobili erano essenziali, di fattura artigianale, dei primi del Novecento. Negli anni sessanta i proprietari si erano trasferiti in America in cerca di fortuna e da allora la casa era rimasta chiusa. L’agente immobiliare l’aveva fatta ritinteggiare per la vendita. Marco si sentiva già meglio, respirò profondamente e sistemò le sue cose, pronto a iniziare un nuovo percorso esistenziale. Il silenzio regnava indisturbato dentro e fuori le mura di quel pittoresco agglomerato di abitazioni, non passava un’anima per quei vicoli angusti. Castrovalva, un paese che c’è, ma non c’è! Si era fatto tardi per uscire a fare la spesa per la cena, Marco mangiò il panino che aveva incartato frettolosamente prima di partire: era super farcito con tutto quello che di commestibile aveva trovato nel frigo, non sapeva quando sarebbe rientrato a Roma e non avrebbe voluto ritrovare tutto ammuffito! Il giovane accese il camino e sprofondò nella poltrona, accanto al fuoco. Lo scoppiettio della fiamma e il tepore dell’atmosfera ricreata fece sprofondare in un sonno ristoratore lo scrittore.
L’alba lo colse rannicchiato sotto il plaid, ancora in poltrona, davanti al camino. Avrebbe dovuto programmare la giornata e quelle successive, pensò, in modo da non morire di noia e d’inedia. Nella cucina, arredata in modo spartano c’era un frigo molto datato, un vero pezzo vintage ma per fortuna ancora funzionante: fu subito riempito di salumi e formaggi locali, comprati dallo scrittore, insieme a pasta, latte e pane, nell’emporio all’ingresso del paese. «Tutta roba genuina che ci portano da Anversa dove ci sono coltivatori, allevatori e caseifici. Qui ormai siamo rimasti in pochi a risiedere, i giovani hanno lasciato il paese che si popola solo nei giorni di vacanza, Come ha fatto lei, in tanti hanno acquistato e ristrutturato le abitazioni per un soggiorno limitato a pochi giorni all’anno.» Il gestore dell’emporio fu cordiale e gentile.
Il cielo era a tratti sereno, il sole illuminava a intermittenza la stanza. Marco, dopo aver sistemato la spesa, posò il computer su un tavolino in modo da poterlo spostare facilmente anche vicino al camino. Inserì il Cubo Wifi e si collegò con il mondo! Non era, però, ancora pronto per riprendere a scrivere. Si sentiva meglio ma ancora insicuro. La fragilità emotiva gli impediva di percepire sensazioni e sentimenti con un certo distacco.
Decise di distrarsi andando a curiosare nel locale all’ultimo piano, raggiungibile con la scala esterna. Sebbene la primavera bussasse alle porte, l’aria era ancora pungente. Marco si abbottonò la giacca e salì velocemente i gradini per raggiungere la soffitta. La chiave girò a fatica nella toppa, quella porta era rimasta chiusa da troppi anni. La luce che filtrava da due finestrelle evidenziava una situazione quasi spettrale. Dalle travi a vista del tetto si dipanavano intrecci di ragnatele che scendevano fino a toccare scatoloni, vecchie sedie sgangherate e un enorme baule. Lo scrittore scansando con la mano i veli sericei incrostati di polvere, raggiunse il mobile, dall’aspetto di un forziere. Un lucchetto bloccava l’apertura del coperchio e nel mazzo di chiavi non c’era quella giusta. L’uomo decise di far saltare il lucchetto con un colpo ben assestato, servendosi di uno schienale di una sedia. Al terzo tentativo vi riuscì e con soddisfazione, sollevò il coperchio del baule. Vecchi abiti, libri e cianfrusaglie varie popolavano quel contenitore del passato che Marco iniziò a svuotare freneticamente. Abiti maschili di un’altra epoca, libri d’arte, astucci di matite e una cartella di grandi dimensioni contenente un imprecisato numero di fogli da disegno. La curiosità lo spinse a sfogliarla e un mondo straordinario si aprì ai suoi occhi. Una serie di disegni tracciati da una mano esperta e sicura. I tornanti impervi e la sinuosa vallata del Sagittario sembravano animarsi tridimensionalmente. Il magico borgo di Castrovalva si stagliava verso un cielo carico di nembi minacciosi, quasi a simulare un rifugio per le aquile. Marco non aveva dubbi, quella era opera di un artista olandese che amava molto per la sua visione di mondi impossibili.
Improvvisamente ricordò che aveva ammirato una splendida litografia di Escher, simile a quei disegni, in una mostra antologica al Chiostro del Bramante. Consultò su internet la vita dell’artista e trovò conferma ai suoi pensieri. Escher aveva soggiornato nel 1929 a Castrovalva e aveva lavorato con passione, ispirato dalla natura selvaggia e paradisiaca del luogo. Il genio della prospettiva a incastro dei mondi che non possono esistere, aveva calpestato il pavimento di quella dimora, aveva animato quelle stanze e aveva lasciato il frutto delle sue meditazioni in un forziere magico che lo aveva gelosamente conservato per ben novantatrè anni.
Marco avvertì un’insolita energia intellettuale, si calò nei panni di Escher, lasciò la soffitta e, con la cartella sotto il braccio, si diresse alla scoperta delle postazioni che avevano permesso all’artista di ammirare e riprodurre quegli scorci naturalistici. Immaginò di essere il geniale olandese che, appollaiato per un giorno intero su una roccia della mulattiera, tracciava segni in chiaroscuro di un paesaggio meravigliosamente reale in una fantastica atmosfera. Marco si svegliò all’alba, prese con sé la cartella dei disegni e raggiunse il tornante da cui Escher aveva avuto l’ispirazione per riprodurre quello scorcio magnifico. Lo scrittore trovò l’angolazione prospettica giusta, quasi ipnotizzato, percorse con lo sguardo ogni singolo tratto del disegno per poi ritrovarlo sulla visuale all’orizzonte. Manco aveva freddo, l’altitudine e l’ora mattiniera non rendevano piacevole lo stazionamento su uno scomodo masso ma rimase immobile ad osservare il cielo su cui si stampava il profilo ancora scuro del paese. Prese un foglio bianco, una matita e al chiarore della luna, provò a tracciare qualche segno. Si era calato totalmente nei panni dell’artista, aveva letto sulla sua biografia che era stato su quella, che allora era una mulattiera, un giorno intero per poter percepire sensazioni delle diverse fasi di illuminazione nella giornata. Marco aveva anche letto che canti di scolari della vicina scuola elementare, si diffondevano in gioiose melodie ma in quella fredda mattina di primavera nessun coro rallegrava la mattinata, causa lo spopolamento del paese. Solo 14 le anime residenti, tutto gli altri sporadici abitanti utilizzavano l’abitazione per pochi giorni l’anno per trascorrere le vacanze.
Nuvole di grigio sfumato, sospinte dal vento in caotica coalescenza, schermavano il sole alla vallata imperlata di bruma. Marco non riusciva a tenere la matita ferma tra le dita intirizzite, i suoi maldestri tentativi di emulare Escher erano solo segni disarmonici. Il tempo scorreva lentamente, quasi in fermo immagine. Improvvisamente, come percorso da un’insolita energia, la mano iniziò a scrivere su quei fogli. Le frasi si susseguivano come un fiume in piena, inarrestabili. Marco stava traducendo in parole le sensazioni che provava e che immaginava avesse avvertito anche Escher in quei momenti di estasiata creatività. Quella era la visione di un mondo possibile, ma impensabile allo stesso tempo, che poteva esistere in quanto affermava la verità troppo effimera delle cose prolungandone l’esistenza. Disegnare, come pure scrivere, è un’illusione! Marco aveva superato il blocco dello scrittore. Era di nuovo consapevole di come su di un foglio bianco bidimensionale si potesse creare la visione di un mondo tridimensionale o storie di realtà improbabili quanto impossibili.