UNO STRANO SEGNO DEL DESTINO (quarta e ultima parte)
Non ricordo cosa mangiai, portavo meccanicamente il cibo alla bocca, ero rapita dal fascino di Giulio, mi sembrava di conoscerlo da sempre, i suoi occhi profondi, il suo sorriso accattivante, il suo giovanile entusiasmo mi avevano letteralmente conquistata.
Avrà una donna che lo aspetta? Che ci faccio io qui con lui, non devo lasciarmi coinvolgere sentimentalmente, devo concentrarmi solo sul lavoro.
«Tuo nonno era impiffatore.» Dissi con un sorriso di chi la sapeva lunga. «Hai tirato ad indovinare?» «Non mi sottovalutare, con il piombino tuo nonno ha urtato qualcosa di metallico che l’aratro aveva portato in superficie, l’ha raccolta, solo alla fine della gara si è reso conto che era una moneta romana e siccome la sua squadra vinse la gara, decise che quella sarebbe stata il suo portafortuna. » Un applauso accolse la fine della mia “arringa”, avevo scoperto il mistero della moneta. «Veramente brava, non mi sono sbagliato ad assumerti, sarai un’ottima socia.» Questa parola risuonò nella mia mente, ha detto “socia”, una 123 dipendente non è una socia. Ero confusa ma non volevo che Giulio se ne accorgesse, sorrisi, un sorriso salva dalle situazioni imbarazzanti, vuol dire tutto o niente, lascia adito a più interpretazioni. «Eleonora, voglio partecipare alla gara stanotte.» Mi aveva chiamata Eleonora, aveva pronunciato per la prima volta il mio nome, eravamo seduti di fronte, era impossibile distogliere lo sguardo dai suoi occhi che brillavano eccitati. «Alvaro mi ha iscritto nel suo gruppo, non vedo l’ora di cimentarmi, per fortuna però che hanno anticipato la gara, prima si faceva in ottobre, e qui in montagna, la notte fa molto freddo.» Era compiaciuto della decisione che aveva preso, lui che ogni giorno indossava impeccabili doppio petto, si sarebbe ritrovato in tuta da lavoro a imbrattarsi di terra per tutta la notte, una esperienza, giudicata da lui, “da non perdere”. «Ed io cosa devo fare, sono ammesse le donne al seguito?» «No, mi dispiace, potrai andare a dormire.» Passeggiammo prima di tornare a casa, parlammo anche di Valeria Luperca, aveva letto Plutarco.
Arrivati a casa, Alvaro lo invitò ad andare a riposare, lo avrebbe atteso una notte aspra e faticosa. Ci salutammo, andai a riposare anch’io, tutte le emozioni della giornata mi avevano fiaccata. All’imbrunire cenammo velocemente, Giulio era già in tenuta da zappatore, mi sorrise, «Una sorta di omaggio che devo tributare a mio nonno.» D’istinto gli buttai le braccia al collo e lo baciai sulla guancia. 124 «Scusa – mi ritrassi imbarazzata – Volevo augurarti buona fortuna.» Mi sorrise. «Ora andrà tutto bene!» Giulio e il custode uscirono, zappa in spalla, canticchiando una canzone del loro folklore. Mi ero fatta spiegare da Matilde la strada per raggiungere la chiesa della Madonna della Neve, chiesi se in casa c’era un binocolo, e la donna mi portò un piccolo telescopio che Giulio usava da bambino. Non poteva andarmi meglio, raggiunsi una postazione sul muro di cinta prospiciente la chiesa, il posto era già pieno di gente, tutti che aspettavano di vedere, se pur da lontano, le squadre all’opera. Alvaro mi aveva detto che sarebbero partite quattro squadre, i buoi con gli aratri erano già sul posto, gli uomini li avrebbero raggiunti con le auto. Giulio faceva parte della squadra numero uno, quindi la prima a destra, puntai il telescopio, era già buio, vedevo delle ombre che si muovevano confusamente, di lì a poco si accesero decine di lampade. Quattro filari di tremule fiammelle avanzavano nella valle perforando il buio della gelida notte. La confusione alle mie spalle mi impediva di avvertire, sia pur flebile, il vocio degli uomini al lavoro. Erano ormai passate alcune ore, il freddo diventava sempre più pungente, e i turisti che prima affollavano gli spalti, diradavano sempre più. Ero incollata al telescopio, vedevo avvicinarsi a grandi passi quel manipolo di volenterosi, il vocio echeggiava più forte nella valle. Ormai ero rimasta sola, avvolta nella coperta che la premurosa 125 Matilde mi aveva portato, insieme ad un thermos pieno di caffè, non vedendomi rincasare. L notte iniziava a sfumare, avevo bevuto metà del caffè per tenermi sveglia e per riscaldarmi, l’altra metà l’avevo lasciata per Giulio: quando sarebbe arrivato lo avrebbe rinfrancato. Non avevo più bisogno del telescopio, le ombre erano sempre più nitide, il vocio concitato incalzava, il chiarore dell’alba faceva riemergere i contorni delle cose prima celati dalla notte. Cosa avrebbe pensato Giulio vedendomi rannicchiata sotto la coperta, forse che sono un’istintiva, una svitata che vuole mettersi in mostra o forse una donna innamorata. Ormai lo avevo pensato, avevo confessato a me stessa che amavo quell’uomo: Giulio era entrato prepotentemente nel mio cuore e nella mia mente. Il rintocco della campana della Madonna della Neve mi distolse dai miei pensieri, per la valle echeggiò l’urlo liberatorio degli uomini che , sfiniti e infreddoliti, avevano portato a termine la loro impresa. Mi alzai in piedi, i gruppi si avvicinavano, mi passavano davanti. «Eleonora, cosa fai qui?» Davanti a me c’era un uomo stanco, imbrattato di terra. Mi tolsi la coperta di dosso, gliela poggiai sulle spalle, gli porsi il thermos con il caffè. Mi sorrise, in un attimo l’espressione di fatica si dissolse sul suo volto. «Sei rimasta tutta la notte ad aspettarmi!» Annuii. Eravamo rimasti soli, anche Alvaro si era avviato verso casa. «Com’è andata?» 126 «Ne è valsa la pena.» Mi abbracciò, ci baciammo, un lungo interminabile bacio. Sono qui, davanti allo specchio, ho infilato il mio abito bianco, ho raccolto i miei lunghi capelli biondi sotto il velo, non sono niente male. Accarezzo il ciondolo della mia collana, è Valeria Luperca, la moneta incastonata di brillanti, che Giulio mi ha regalato per le nostre nozze. “Alla sola ed unica dea di Faleria, alla mia divina Eleonora” Giulio aveva sempre saputo che ero di Faleria, come Valeria Luperca, lo aveva letto sul mio curriculum: galeotto fu il colloquio e chi lo fece!