La pandemia svolta epocale?
di Marco Tabellione
La pandemia segna un punto di non ritorno? Una svolta epocale? Sembrerebbe di sì, forse non riusciamo a comprenderlo bene perché ci siamo dentro, e fino in fondo non ce ne rendiamo conto, la nostra consapevolezza si ferma a volte di fronte alla tragedia e al dolore; ma qualcosa di definito è accaduto, questo va detto, e va detto che molte cose non torneranno come prima, nonostante il desiderio di tutti sia recuperare la leggerezza di un tempo. Insomma la sensazione è che non si tornerà indietro, che siamo all’apice di cambiamenti preparati da tempo, legati all’assurda idea di poter vivere una vita virtuale. Certo la tecnologia ci ha permesso ci proseguire a lavorare, a scambiarci i saluti, a dialogare fra noi anche se chiusi in casa, ma ci ha anche mostrato come tutto questo sia in fondo finto, sia un placebo, anche se apparentemente sembra essere nel nostro destino, nel destino dell’umanità intera.
Ecco, oltre al disastro umano, le morti che abbiamo dovuto sopportare e il cui dolore resta indelebile nelle famiglie colpite nei propri affetti più cari, c’è anche questo di tragico, almeno dal punto di vista mio, siamo definitivamente stati affidati al mondo e alla realtà virtuale. Destinati a vivere in cellule abitative autosufficienti, immobili, protetti, dentro però una vita finta, virtuale appunto. Una visione eccessivamente apocalittica? Può darsi, tra gli apocalittici e integrati in cui Umberto Eco divideva gli intellettuali, mi sembra di potermi schierare nel primo gruppo. Questo perché tutte le promesse che la società post-moderna del tardo-capitalismo aveva fatto sono state disattese.
Innanzitutto il benessere non è di tutti. Perché il capitalismo non riesce a compiere una svolta per giungere dalla capitalizzazione e dall’accumulo singolo ad una reale distribuzione della ricchezza? Come è possibile che non si riesca a porre dei limiti al profitto, in modo da consentire a tutti di beneficiarne? Ridistribuire lavoro e ricchezza, e anche istruzione e svago, e infine benessere e gioia di vita. Se non è questo lo scopo del nostro vivere insieme, quale potrebbe essere?
L’immagine di una umanità divisa fra privilegiati e la massa di coloro che aspirano ad essere privilegiati non è più degna della definizione di civiltà, semplicemente non possiamo più definirci civili.
Da un lato perfezioniamo le nostre tecnologie per giocare con la vita, per uscire il più possibile da noi stessi e saziarci dell’altro, degli altri, stando contemporaneamente in tutti i posti del mondo, in tutti i luoghi e potenzialmente con tutte le persone; da un lato viviamo questa globalità virtuale e tecnologica, dall’altro conviviamo con la miseria immane, le tragedie di degrado più inaccettabili.
E il problema, il nocciolo della questione è sempre quello: perché non riusciamo a ridistribuire? Perché non riusciamo a plasmare questa beatitudine tecnologica su tutto il mondo, finalizzandolo a migliorare la vita di tutti? Perché? Il perché è purtroppo presto detto: perché non lo vogliamo, in realtà non è nella nostra agenda, non è il nostro desiderio.
Ciò che rattrista di più è che dopo tutto, dopo questi due anni disgraziati, l’uomo è rimasto lo stesso, è cambiato tutto a livello globale, il virus ci ha frenati e messi in ginocchio, ma la finalità dell’uomo e della società è rimasto sempre lo stesso, l’accumulo, il profitto, la salvaguardia materialistica. E soprattutto il predominio dell’economia. Non se ne può più, non è più sopportabile questo realismo razionalistico che spinge a ridurre la nostra permanenza miracolosa su questa terra, ad un problema di soldi e di compravendite. Possibile che non riusciamo a capire che siamo molto di più, che la vita è contenuta nell’universo intero, che siamo proiettati verso l’infinito, possibile che ce ne dimentichiamo sempre, presi dai nostri quotidiani crucci banali? E niente può spingerci ad accorgerci di ciò, neanche una malattia, la sua diffusione pandemica, neanche lo scoprire per un attimo che siamo fugaci e che la vita potrebbe esserci sottratta da un momento all’altro.