Domenico Marcheggiani – Chi eravamo
DOMENICO MARCHEGGIANI
di Erminia Mantini
Era il primo di quattro figli di una onorata famiglia contadina, li Jusaffatte. Fin da bambino, come anche gli altri due fratelli Guerino ed Emidio, si appassionò ai motori, attratto e incuriosito dai misteriosi ingranaggi che ne provocano il funzionamento. Perciò, dopo il ciclo delle elementari, volle frequentare le scuole tecniche a indirizzo meccanico. Incominciò a conoscere il mestiere, insieme al fratello Guerino, a Pescara, in via Piave, presso Luigi Di Giovanni. Quando l’autofficina cessò l’attività, i fratelli proseguirono l’entusiasmante tirocinio da Giuseppe Sticchiotti, a Montesilvano, sulla Vestina, di fronte all’attuale consorzio. La posizione strategica dell’officina invitava automobili, furgoncini e alcuni camion a sostare per le necessarie riparazioni, che venivano eseguite velocemente e alla perfezione.
Erano giornate piene e felici per Domenico, disteso sotto l’auto o curvo sul motore, con quella giovialità serena che intrattiene il cliente, mentre le mani nere di grasso frugano tra i pezzi e gli occhi non si distaccano dal cuore del problema. Gradualmente la forte motivazione gli consente di acquisire una competenza piena e riconosciuta, tanto che il titolare lo volle come socio. Nell’autofficina lavorava anche Pasquale Iommarini, tornitore espertissimo, padre dello storico bidello Remo e di Rita, che divenne poi la moglie di Domenico.
Sul finire degli anni sessanta, la Nazionale e l’importante viale Abruzzo stavano mutando aspetto. Le campagne che distanziavano le dimore dei pochi benestanti, i Ruggieri, i Di Giacomo, don Alfredo il veterinario, lasciarono il posto a numerose casette; avevano chiuso i battenti il saponificio Libi, il vivaio di Schiappa, la fabbrichetta di lucidi per le scarpe di Vignini; il 13 giugno ’63 fece l’ultima corsa l’indimenticabile trenino che aveva caratterizzato un’epoca, e furono tristemente abbattuti quei platani che si susseguivano maestosi fino a Mazzocco.
La Statale sedici diventava sempre più un’arteria importante con un apprezzabile traffico di auto e di camion. E proprio lì, al numero 312, di fronte al laboratorio di Barberini, Domenico pensò di realizzare il suo sogno: insieme al fratello Guerino, su di un’area di 700 metri quadrati, aprì l’officina dei Fratelli Marcheggiani. La sua maestria si diffuse rapidamente e Domenico Marcheggiani diventerà per tutti Mimì lu meccaniche! Aumentando progressivamente la mole di lavoro, fu necessario assumere più operai che ormai superavano la decina, soprattutto dopo l’accordo per le riparazioni sottoscritto con la FIAT. Di lì a qualche anno entrò nell’azienda anche il fratello minore Emidio, cui fu affidato il settore ricambi, tassello importante nel contesto lavorativo; infatti, oltre che rivendere a terzi, la presenza del magazzino permetteva di sostituire rapidamente i pezzi, concludendo la riparazione in breve tempo per consentire, soprattutto ai camion, di riprendere il viaggio, limitando i danni. Mimì e Guerino erano grandi artigiani della meccanica: smontavano pezzo pezzo, eseguivano le operazioni di revisione o di sostituzione e rimontavano in un baleno con grande competenza e precisione. Guerino aveva l’orecchio meccanico, individuava il problema all’istante e Mimì eseguiva i lavori di riparazione con una perizia straordinaria risanando a regola d’arte. Si lavorava a pieno ritmo, notte e giorno, anche perché, tra i vari servizi, l’azienda offriva il soccorso stradale e autostradale, in convenzione con l’ACI. E intanto sopra al capannone, in economia e con la manovalanza dell’infaticabile Emidio, si alzano i piani con sei appartamenti, per i tre fratelli e le rispettive famiglie. Mimì, quando toglieva la tuta, si occupava della parte amministrativa e curava tutti i rapporti commerciali e relazionali. Andava a visitare anche le grandi officine meccaniche dell’Emilia Romagna per cogliere aspetti innovativi, organizzativi e continuare a dotare l’officina di attrezzi e macchine accessorie d’avanguardia.
Il pronto soccorso auto dei Marcheggiani non riusciva più a soddisfare tutte le richieste, anche perché le dimensioni dell’autofficina erano ormai inadeguate all’elevato flusso di auto e soprattutto di mezzi pesanti. Fu così che, a metà degli anni settanta, Mimì, d’accordo con i fratelli, a Silvi Marina, dove sorge ora il Mercatone, acquistò un ettaro di terreno su cui allestì un capannone di circa duemila metri, in cui potevano sostare per assistenza e riparazioni veicoli di grande mole. Alla struttura affiancò un altro capannone di 600 metri quadrati in cui si eseguivano lavori di carrozzeria. A Montesilvano restavano Emidio, per la gestione dei pezzi di ricambio, e alcuni meccanici fidati che avevano ben appreso il mestiere. Infatti Mimì può rivendicare la paternità di tantissimi meccanici, molti dei paesi viciniori e alcuni montesilvanesi, come Di Gregorio, Perini, Di Berardino, Dell’Elice, Mazzocco e il bravissimo Pasquale, che poi diventerà capofficina dell’Arpa; così ben addestrati che apriranno a loro volta attività in proprio.
Mimì ormai aveva abbandonato quasi del tutto la tuta per governare quel complesso impero; interveniva talora nelle saldature più difficoltose, di cui era veramente un mago.
A fine anni settanta, sottoscrisse un accordo con la IVECO, leader nel settore dei veicoli industriali, soprattutto dopo la fusione dei cinque marchi fondatori. Ciò gli consentì di vendere veicoli di grandi dimensioni, permutando quelli usati che, rigenerati nel motore e nella carrozzeria, venivano a loro volta rimessi sul mercato. L’azienda contava più di venti operai e diversi contabili, oltre ai figli Mauro, responsabile delle vendite dei veicoli industriali e Rossella, coadiuvati anche dai cugini, figli degli altri fratelli di Mimì. I clienti arrivavano da gran parte delle regioni italiane, specialmente dalla Puglia e dalla Sicilia, ma anche dal Veneto. Il grande ingranaggio lavorativo funzionava a meraviglia e si lavorava senza risparmio; Mimì, perseguendo con tenacia e spirito di sacrificio una passione nata con lui e condivisa dai fratelli, aveva creato una vera azienda industriale, una struttura complessa, articolata e redditizia.
Agevolato da un carattere socievole ed estroverso, sapeva costruire e mantenere nel tempo relazioni ed amicizie, verso cui si è sempre mostrato generoso. Era tutto casa e lavoro; si concedeva solo qualche battuta di caccia, nelle riserve all’estero, in compagnia degli amici più cari: Vittorio Agostinone, Centorame Martino, Manfredo Piattella e l’avvocato Testa. Alcuni anni più tardi, purtroppo, un rallentamento delle vendite e una concomitanza di piccoli problemi iniziano a generare qualche scricchiolio; le difficoltà aumentano e si sommano, erodono come un invisibile malefico tarlo la straordinaria organizzazione lavorativa, fino a farla crollare, vanificando la laboriosa realizzazione di tutta una vita, anzi di più vite. E nel 2010 il meccanico dei meccanici lascia questo mondo, continuando a vivere da buon maestro nei suoi discepoli.
Ancora lo testimonia l’ottantasettenne e vigile fratello Guerino, che poco tempo fa, in visita al grande e leale amico di famiglia Gennaro Agostinone, con l’infallibile orecchio diagnosticò la rottura del cambio ad un autobus in panne, tra lo stupore e l’ammirazione dei meccanici, che inizialmente l’avevano ascoltato con reverenziale ironia!