L’eremo di San Bartolomeo in Legio – Appunti di viaggio
di Antonio Lafera
Nei nostri camminamenti nell’Abruzzo maiellese nord occidentale non poteva mancare la visita a un eremo, per capire il fascino e la storia religiosa di questa montagna sacra per chiunque sia nato in questi territori.
Nella millenaria ricerca della trascendenza che l’uomo ha sempre condotto, il paesaggio solenne dell’Appennino abruzzese ha avuto un ruolo fondamentale: la montagna, qui, prima di essere un elemento fisico è un simbolo spirituale, acquisito nel profondo dell’anima. Ecco perché non si può dire di aver veramente visto l’Abruzzo senza conoscere uno degli aspetti più caratteristici della sua cultura e del suo territorio: gli eremi. Quello di San Bartolomeo in Legio è uno degli eremi celestiniani della Majella più spettacolari. L’edificio si stende in uno scenario arido, sotto un costone roccioso che lo copre completamente tanto da mimetizzarsi nella roccia, ci richiama alla memoria quei film in cui i “pueblo” messicani sono ricavati e costruiti in grotte sotto costoni rocciosi. Realizzato sicuramente in un periodo anteriore al Mille, si ritiene attorno all’800, fu successivamente restaurato intorno al 1250 dal futuro Celestino V che lo usava per le numerose quaresime cui si sottoponeva. In effetti vi si recava quando l’eremo di Santo Spirito, che è molto più a monte nel vallone omonimo, era troppo frequentato dai fedeli per l’agevolezza del sentiero. Agli ambienti dell’eremo, che è un piccolissimo convento nella roccia con attigua cappella, si accede attraverso una scala scavata nella pietra, la Scala Santa, che porta a una lunga balconata rocciosa alla fine della quale appare con effetto sorprendente la chiesa. All’interno su un semplice e rigoroso altare è posta la statua lignea di San Bartolomeo e, sulla parete sinistra, c’è una vaschetta che raccoglie una vena d’acqua freschissima che i devoti ritengono miracolosa. Ogni anno il 25 agosto giungono qui numerose compagnie di pellegrini, da tutta la regione e dall’estero dove figli intraprendenti del territorio sono emigrati in cerca di futuro; dopo la messa scendono al fiume che scorre sotto il costone roccioso e si bagnano, ripetendo un rituale antichissimo. Queste acque vengono ritenute miracolose perché “guariscono” qualsiasi malattia della pelle. Compiuti vari atti penitenziali, si fa colazione lungo il fiume e si risale all’eremo per la processione che porta la statua di San Bartolomeo nella chiesa di Roccamorice, dove resta esposta al culto dei fedeli fino al 9 settembre, quando un analogo pellegrinaggio, in senso inverso, la riconduce all’eremo e lì passa il resto dell’anno in splendida solitudine.
Torniamo adesso alla nostra gita. Siamo partiti un gruppo di amici e con le macchine abbiamo attraversato San Valentino, ridente borgo di origine medievale, di cui già abbiamo apprezzato in altre occasioni le eccellenze: il castello, la caratteristica cattedrale a due campanili, il Museo dei fossili e delle ambre, lo squisito gelato di Antonio. Subito dopo il paese a circa 2 chilometri un bivio ci indica Roccamorice. Percorriamo la comoda strada che si snoda fra colline morbide che non nascondono visioni della costa e del mare sulla sinistra o della montagna madre sulla destra. Improvvisamente la morbidezza del paesaggio cede a forre e dirupi, e vediamo il paese abbarbicato lassù in cima. Il piccolo borgo è bello e caratteristico, palazzi antichi e chiese medievali si sposano magnificamente con sculture, in pietra della Maiella, che i sapienti scalpellini del territorio hanno realizzato. Un belvedere ci fotografa tutta la parte finale della vallata del Pescara che scorre laggiù in fondo, verso l’azzurro-verde dell’Adriatico. Nel paese ci sono due edifici che vale la pena visitare, magari al ritorno per sedimentare la fatica della camminata con un tranquillo incedere. La prima è la chiesa di San Donato che conserva due opere d’arte di inestimabile valore: la Madonna che allatta la cui costruzione iconografica ricorda, nelle pitture egizie, Iside che allatta Horus. I colori eccezionali, la delicatezza delle forme e la foglia d’oro largamente usata ne fanno un piacere per gli occhi oltre che per lo spirito; la seconda è la Madonna di San Luca, antichissima icona bizantineggiante, impreziosita da una cornice molto elaborata. Ricordiamo che la Madonna di San Luca ha la caratteristica di avere lo sfondo blu stellato e nella tradizione cristiana è stata la prima rappresentazione della Vergine. L’altro edificio è una chiesa sconsacrata in cui un privato, indubbiamente colto e sensibile, ha realizzato un museo che accoglie opere d’arte, libri antichissimi e perfino copie preziose dei codici leonardeschi: vale la pena chiedere in Comune cosa fare per visitarlo. Torniamo al nostro viaggio, svoltiamo sulla piazzetta verso destra e subito ci si presenta un torrione alto e massiccio, a base rettangolare, di pietra bianca, un vero e proprio parallelepipedo altissimo di cui però si sa poco. Più avanti, sulla destra, si prende una strada di montagna che si snoda in salita costeggiando villette ricche di fiori che famiglie della costa hanno costruito per godere dei silenzi, dei paesaggi e del fresco della montagna. Dopo qualche chilometro incontriamo un bivio, ma non prendiamo quello che ci porta a Passo Lanciano e che è bene dire costeggia tanti tholos che pastori solerti costruirono nei secoli passati per proteggere se stessi e le greggi dalle intemperie e dai lupi che ancora relativamente numerosi vivono nel territorio: svoltiamo a destra e ci fermiamo in uno spiazzo accanto a un ristorante che cucina delizie locali e che, se si vuole, si può prenotare per il ritorno per deliziare dopo lo spirito il palato. La zona si chiama Macchie di Coco.
Un segnale in legno ci indica il sentiero che in un primo tratto si snoda, in leggera discesa, sotto le chiome di roverella ombrosa ed è costeggiato da felce rigogliosa che all’occorrenza può essere usata per scacciare mosche fastidiose, specie nella stagione calda. Il sentiero è largo e permettere un andare appaiati in un tranquillo dialogare. Dopo una decina di minuti si arriva ad un bivio, il bosco si dirada e si prende verso sinistra, guidati dalle indicazioni. Ora il cammino si fa meno agevole, comincia a scendere verso il vallone che si intuisce più avanti. Le piogge periodicamente lo scavano mettendo a nudo sassi e rocce, è perciò opportuno avere con sé un bastone per fidare in un ulteriore appoggio, ma non spaventiamoci è soltanto una precauzione. Ora il paesaggio si mostra in tutta la sua magnificenza: la Maiella, gli Appennini, le forre, i valloni; il confine dello sguardo è laggiù verso sud-ovest in un cielo azzurro e terso. Improvvisamente il gruppo zittisce, ognuno insegue la propria sensazione di benessere spirituale e di compartecipazione con la natura e l’unico rumore è il rotolare di qualche sasso sotto i piedi. Senza accorgercene comincia un secondo viaggio: quello dentro se stessi che spesso gareggia in difficoltà con quello delle gambe e dei polmoni. Siamo ancora in alto e un filo di vento, odoroso di erbe selvatiche in cui la fa da padrona la mentuccia, ci rinfresca deliziosamente. Ora la discesa si fa più ripida ma il sentiero più agevole, siamo entrati nell’alto del vallone e ricompare il verde intenso del bosco laggiù verso il fondo. Ci fermiamo qualche istante a bere e a nutrire gli occhi con le infinite sfumature di colore delle rocce e dei boschi in lontananza. Ci sentiamo sospesi nel tempo e nello spazio e ci guardiamo con un leggero sorriso condividendo il benessere che ci pervade. Ecco, improvvisamente, un buco nella roccia in cui è scavata la Scala santa ci fa intuire la vicinanza dell’Eremo che subito dopo si presenta in tutta la sua singolare bellezza: una lunga balconata di roccia bianca con striature grigie e bluastre dalle cui fessure occhieggiano le “viole della Maiella” che con il loro tenue azzurro pastella fanno compagnia al cielo sopra di noi. Sul fondo si intravede una chiesetta rupestre.
Sulla facciata ci sono due tabelloni affrescati del XIII secolo: una Madonna col Bambino e un Cristo benedicente. L’oratorio è quasi interamente incastonato nella roccia; sopra l’altare cinquecentesco c’ è una nicchia contenente una statua lignea ottocentesca di San Bartolomeo (affettuosamente chiamato dai fedeli “Lu Sandarelle”), raffigurato con un coltello nella mano destra e la propria pelle a tracolla, sulla scorta dell’iconografia del santo imposta da Michelangelo nella Cappella Sistina (solo per curiosità raccontiamo che con tutta probabilità l’artista nel viso del santo ha dipinto il suo autoritratto). Una porticina a sinistra dell’altare immette nella parte abitativa dell’eremo che definire spartana è dire poco.
Nel 1320 l’eremo era ancora abitato, ma nel corso nel Trecento venne progressivamente abbandonato.
All’interno della chiesa, sotto una pietra squadrata, vi è una piccola “risorgenza” d’acqua. È “l’acqua di San Bartolomeo”, dalle proprietà taumaturgiche, che viene raccolta con un cucchiaio e mescolata con l’acqua del torrente sottostante (Capo della Vena) per poi bagnarvisi.
Poco lontano, sotto un altro riparo di roccia, scavi archeologici hanno scoperto la presenza di un villaggio dell’età della pietra, con annesso un laboratorio di lavorazione della selce. È strabiliante come vene sovrapposte di selce, racchiuse fra strati di roccia biancastri impreziosiscano le pareti di questo riparo naturale. Purtroppo l’ignoranza e la pochezza spirituale hanno spinto nel tempo numerosi vacanzieri a staccarne pezzi.
Se arriviamo dalla Valle Giumentina, il vallone di Santo Spirito si apre all’improvviso. La prima cosa che colpisce sono queste rocce di tanti colori e segnate da tante grotte. Seguiamo con lo sguardo un sentiero ben evidente che dall’alto dell’altra sponda della valle scende dolcemente. Alla fine del sentiero i nostri occhi incontreranno l’Eremo di San Bartolomeo e da questo momento fino a quando non scenderemo giù al fiume, potremo ammirarlo frontalmente. Sembra di sentire, nell’eco della valle, i canti e le preghiere dei frati che vissero in questi luoghi. Per vivere questa suggestione, arrivati all’Eremo suoniamo la campanella che riecheggerà in tutta la valle
Per ragioni di comodità e tempo abbiamo scelto il cammino da Roccamorice. Torniamo brevemente alla storia. L’Eremo di San Bartolomeo fu utilizzato come dipendenza dell’Eremo di Santo Spirito a Majella situato poco più a monte, e Pietro da Morrone, tornato da Lione dove si era recato per ottenere da Papa Gregorio X il riconoscimento della sua Congregazione dei Celestini, vi si stabilì per circa due anni. In effetti vi si recava quando aveva bisogno di maggiore silenzio e solitudine. L’eremo è costituito da una cappella e da due vani scavati nella roccia destinati agli eremiti.
Alla sinistra dell´altare, una porticina conduce alla piccola e spartana cella eremitica che fu luogo di silenzio e preghiera di Pietro da Morrone, futuro Papa Celestino V.
Bartolomeo (in greco antico: Βαρθολομαῖος, Bartholomaĩos. è stato uno dei dodici apostoli che seguirono Gesù. L’apostolo viene chiamato con questo nome nei sinottici, mentre nel vangelo secondo Giovanni è indicato con il nome di Natanaele (lett. “dono di Dio) Era originario di Cana in Galilea, ma non vi sono indicazioni sulle date di nascita e di morte. Incerto il luogo di morte (Siria, o Armenia, o Azerbaigian), verso il 68 d.C. .
Tutto quello che si conosce di questo apostolo proviene dai vangeli. Secondo il Vangelo di Giovanni, egli era amico di Filippo. Fu infatti questi a parlargli entusiasticamente del Messia dicendogli: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret». La risposta di Bartolomeo fu molto scettica: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?» Ma Filippo insistette: «Vieni e vedrai». Bartolomeo incontrò Cristo, e quanto il Nazareno gli disse fu sufficiente a fargli cambiare idea: «Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità”. Da questo momento più nulla si sa, solo la tradizione racconta la sua vita missionaria in varie regioni del medio oriente tra cui la Mesopotamia. Secondo alcuni, forse si spinse fino in India. Anche la morte è affidata alla tradizione che lo vuole ucciso, scuoiato della pelle, secondo alcune fonti da parte del re dei Medi in Siria.
A causa del supplizio a cui sarebbe stato condannato, lo si vede spesso raffigurato mentre viene scuoiato o con un coltello in mano La più nota scultura di san Bartolomeo è un’opera di Marco d’Agrate, un allievo di Leonardo, esposta all’interno del Duomo di Milano, in cui è appunto rappresentato scorticato con la Bibbia in mano; l’opera è caratterizzata dalla minuta precisione anatomica con cui viene reso il corpo umano privo della pelle, che è scolpita drappeggiata attorno al corpo, con la pelle della testa penzolante sulla schiena del martire. Capiamo quindi perché il Santo è protettore dei macellai e dei conciatori di pelle.
Torniamo ora alla nostra gita, rifocillati da panini e alcuni più saggiamente da frutta ancora fresca per reintegrare i sali minerali, ci rimettiamo in cammino risalendo piano piano il costone di roccia. Stranamente il cammino è più agevole in salita e se si procede senza strappi si ha tutto il tempo di osservare sul sentiero piccole pietre spesso zoomorfe. Anni fa ne ho raccolte e ho fatto con esse un presepe, apprezzato dagli amici per rigore e semplicità. Risalendo ci si saluta con gruppi che scendono. In effetti la solitudine dei monti, il senso di pace, la condivisione spingono le persone al sorriso e al saluto pur non conoscendosi. Di nuovo sul costone si apre agli occhi l’orizzonte e refoli di vento gradevoli spingono in cerchi concentrici una poiana alla ricerca del pasto quotidiano. Giungiamo alle macchine stanchi ma soddisfatti, ci attardiamo a bere e a scambiarci impressioni. Il cammino ci ha lasciato qualcosa che porteremo con noi nei tempi a venire.