Via Liguria, la storia
Quando la crescita edilizia diventa calamità innaturale.
Lettera di Gianfranco Costantini
La via che tra Villa Verrocchio e Villa Canonico esprime meglio il fallimento di un’intera comunità. La storia che vi racconto parla di un piccolo paese di pescatori e contadini che dalla prima metà del 900 arriva fino ai giorni nostri. Io ne ho vissuta una parte, che inizia alla fine degli anni 70, tutto il resto mi è stato raccontato fin da bambino dalla mia mamma, mia nonna e tutte quelle persone che con affetto chiamavo “Lo Zi o La Zi” (zia o zio in dialetto). Era bambina la mia mamma nel primo dopo guerra, quando nonno Umberto Ronca di ritorno dalla “Stazione” di Montesilvano, non perdeva occasione per recuperare mattoni, intonaci e qualsiasi cosa potessero essere utili per riempire la stradina che portava al mare oggi chiamata via Liguria.
A quei tempi non esistevano vie asfaltate e tutte quelle stradine che oggi portano al mare, erano piccoli sentieri tra gli orti ed era necessario rialzarli per risparmiarli dagli acquitrini che si formavano con le piogge.
Ogni 3 o quattro strade c’era un fosso di bonifica che dalle colline convogliava al mare le acque piovane. Grazie a questo sistema e alle continue cure dei miei nonni, i terreni paludosi che un tempo ricoprivano l’intera fascia costiera restavano asciutti.
Pensate che a 100 metri dal mare, dove oggi sorge casa mia, le anguille deponevano le uova e si pescavano i cefali. In caso di piogge violente, mio nonno con i suoi fratelli allargava la foce del fosso e il rione non si allagava mai. Come tutte le zone rurali, ogni casa aveva il pozzo, la stalletta con gli animali e l’orto da cui si ricavava il sostentamento.
Questo mondo agricolo e marinaro, con il passare degli anni, lasciò il posto alla embrionale modernità che però conservava ancora i tratti della vita semplice vissuta con sacrifici. Con il benessere portato dal boom economico, cominciarono ad arrivare i primi villeggianti. L’estate era chiamata da tutti “LA STAGGION” e tutti sapevano che la stagione bisognava stringersi per accogliere i turisti che venivano a passare un mese di vacanza al mare. I turisti dell’epoca erano soprattutto romani, aquilani, ternani, e reatini, a volte tornavano persone che da bambini erano mandati dalle famiglie alla colonia estiva Stella Maris.
La popolazione era ospitale e il sacrificio di passare un’estate stretti in una stanza, oltre che da qualche soldino in più, era ricompensata dalla nascita di amicizie profonde e sincere. In molti casi le amicizie si sono così radicate che durano ancora oggi.
Io ad esempio sono stato battezzato da un sacerdote di Terni, la cui sorella veniva in villeggiatura al mare a Montesilvano e ci sono famiglie di Torino e Roma che ci invitano ancora oggi alle feste.
A questa Montesilvano del dopo guerra che viveva ancora in un territorio sano e curato, pian piano si è aggiunta una popolazione proveniente inizialmente dall’ENTROTERRA vestino, teramano e pescarese, in seguito dalle province napoletane e foggiane. Le case che erano veramente poche, hanno iniziato a crescere di numero per far fronte alla nuova popolazione che premeva dalle campagne.
Tutti i lotti di terreno che dal mare s’inoltravano fino alla ferrovia prima e fino alla collina poi, hanno iniziato ad avere un valore sempre maggiore, tale da scoraggiare l’agricoltura e incoraggiare l’edificazione. E’ così che in alcuni casi le famiglie come la mia, hanno spartito i lotti di terra agricola per costruire le case ai propri figli.
Quando sono nato io nel 1977 via Liguria e le strade limitrofe erano costruite per metà, ogni via era collegata alle altre da orti o vigne e tutti ci conoscevamo.
Villa Verrocchio e Villa Canonico erano i quartieri dei bambini. In quegli anni, pur essendo privi di tutte le opere pubbliche (lo sono ancor più oggi), lo sviluppo edilizio aveva lasciato spazio ai turisti e ai bambini.
Ricordo ancora quando sotto casa passavano i turisti stranieri, soprattutto tedeschi e svedesi.
Nel raggio di 500 metri da casa mia c’era un mondo di divertimento. In via Lazio c’erano i mini golf Paco, la piscina Sporting, il mitico “Campo” e il meno famoso “Campettuccio”, in via Valle D’Aosta il camping e la sala giochi Paco house, in via Vitello D’Oro c’era il campo da tennis e in viale Abruzzo il bar Abruzzo del mitico Fortunato che organizzava la festa della Madonnina. Lungomare c’era il pronto soccorso per i turisti, Radio Mare di Gianfranco Valli e la sera tutti si fermavano al GRI GRILLO.
Tutto era accessibile ai bambini e i turisti che quando venivano in vacanza, lasciavano spensierati i loro figli a giocare con noi. Ricordo ancora oggi quando io e mia sorella, in compagnia di decine di bambini, facevamo la bancarella sotto casa. Vendevamo le rimanenze del negozio su scatoloni decorati con delle stoffe, lei gli oggetti più costosi io quelli in legno più economici. Erano così tanti i turisti che mia sorella in un solo giorno si comprò la bicicletta nuova ed io ogni sera offrivo il gelato all’Hotel San Remo a tutti i bambini che erano stati con noi.
Alla fine degli anni 80 l’edilizia selvaggia aveva cementificato tutti i lotti rimasti e pian piano i bambini hanno iniziato a trovare sempre meno spazi per giocare. Fortunatamente in quegli anni le macchine erano ancora poche e noi chiudevamo le strade con i mattoni per giocare a pallone. Quando poi anche le strade cominciarono a essere affollate, approfittavamo dell’asilo di via Vitello D’Oro che era solo un piccolo fabbricato con molto spazio attorno, lasciato a disposizione dei bambini del quartiere.
In pochi anni il profumo della ramaccia bagnata (gramigna), è stato sostituito dalla puzza delle fogne, il canto delle raganelle dalle marmitte dei motorini. Si è consumato lentamente un disastro sotto i nostri occhi e non ce ne siamo preoccupati.
Per fortuna i bambini si adattano, noi sfruttando le piccole opportunità che il caso ci ha lasciato, abbiamo finito per invadere i cortili delle case recintate ma ancora senza cancello.
Un ricordo che resterà sempre nel mio cuore, era l’usanza di incontrarsi le sere d’estate al buio sotto casa di Za Fenisia. Dopo cena era il ritrovo di tutte le famiglie della via, molti si portavano le sedie da casa e si sedevano per raccontare, storie, barzellette, pettegolezzi, fino al arrivo della prima brezza di terra che annunciava la buona notte.
Non immaginate quante volte ho sentito esclamare “ hooo s’arfiat, sa cagnat l’arij, mo ci putem ji a durmì!”.Tradotto: si respira, si è cambiata l’aria, adesso possiamo andare a dormire.
Gli anni novanta sono stati un lento declino, soprattutto quando le palazzine costruite a cavallo tra gli anni 70 e 80 non hanno attratto più i turisti. I turisti prima di noi hanno percepito il degrado. Nel giro di una decina di anni, il ciabattare allegro degli stranieri e lo strusciare festante degli zoccoli dei napoletani, ha lasciato il posto al ticchettio dei tacchi a spillo delle prostitute straniere e agli scarponi di gomma degli spacciatori e dei magnaccia.
Nel nuovo millennio, di turistico non è rimasto niente in questi due quartieri, tutto ha lasciato spazio a squallide palazzine, molto comuni nelle brutte periferie. Anche i bambini sono stati cacciati, è stato sottratto loro anche il minimo spazio vitale.
Da molti anni Montesilvano è in disfacimento, i prezzi delle case crollano per l’assenza di standard qualitativi e urbanistici. Purtroppo i costruttori nella nostra città, non hanno avuto nessuna evoluzione culturale e sono rari casi di cambio generazionale fortunato. La maggior parte di loro sono ancora poco più che carpentieri pieni di soldi, incapaci di capire cosa è giusto costruire nelle varie zone della città.
Mentre nelle periferie degradate di Pescara in questi ultimi anni sono stati realizzati complessi residenziali di qualità con parchi e opere urbanistiche all’avanguardia, la nostra città sembra essere tagliata fuori dal progresso.
Oggi ho scoperto sulla mia pelle, che il piano regolatore prevede a Villa Verrocchio, Villa Canonico e Santa Filomena che si può buttare giù una casa a un solo piano per edificarne una di sette.
Quale futuro in un luogo che replica una versione triste e misera dei caratteristici vicoli di Napoli? Come facciamo a crescere dei figli in un quartiere che ha come unico spazio ricreativo, la parrocchia il sabato pomeriggio?
Via Liguria oggi è ancora una piccola stradina che porta al mare, conta una cinquantina di famiglie che vi risiedono, stabilmente, ma è senza parcheggi senza verde pubblico, senza marciapiedi, con le fogne degli anni 60 ed i cavi del telefono volanti tra i balconi.
Nel corso degli ultimi venti anni la via ha visto passare prostitute di ogni sesso, età e provenienza, spaccio di droga, risse, motociclette incendiate, auto rubate, case svaligiate, un suicidio e addirittura un uomo ucciso e gettato in spiaggia. Nella situazione appena descritta, la via dovrà accogliere quasi certamente ulteriori trentacinque nuove famiglie in tre palazzi, con tutti i problemi che ne conseguono.
È in atto l’ultimo assalto alla decenza del vivere civile. In tutto il quartiere, famiglie che ereditano casette con piccoli lotti di terreno si sfregano le mani e sollecitati dai soliti miseri palazzinari, concludono gli “affari”. Non importa a nessuno poi, se ci sono parenti disabili da sloggiare dalla casa natia o vicini da seppellire e oscurare per sempre con questi pollai verticali.
Oggi è questa la triste realtà, chi ha figli e ha mezzi scappa nei paesi vicini. Chi non può trasferirsi, complice la crisi economica, sarà costretto ogni giorno di più a vivere a gomito a gomito con il degrado.
Avrei voluto raccontarvi una storia con un altro esito ma purtroppo, mi verrebbe da dire, non è dipeso da me. E invece è dipeso anche da me, perché non ho fatto niente per impedire questo scempio, almeno nella sua ultima evoluzione. Ecco, forse la morale di questa storia amara è proprio questa. Tutto quello che accade, in qualche modo dipende in anche da noi, non serve a niente rimpiangere o recriminare affacciati alla finestra, bisogna uscire e agire con intelligenza e determinazione. Almeno per una volta, almeno per i nostri figli. Apriamo un dibattito su come riteniamo giusto modificare architettonicamente la nostra città, interroghiamoci e proponiamo come vogliamo trasformare il nostro quartiere. Mi auguro questa lettera sia il punto di partenza di una presa di coscienza per essere il motore del Rinascimento montesilvanese.