Lettere al Direttore
La relazione della città con gli alberi
Ricevuta via whatsapp il 22 luglio da Marco Santucci
Egregio Direttore,
mi permetto di mandarLe alcune foto che mostrano, più di tante parole, l’abisso tra due modi diversi di intendere la cura del verde. La prima di queste foto può trovarla facilmente in rete, ed è relativa al Giappone. C’è poi Montesilvano. Potrà riconoscere i primi 100 mt di corso Umberto I, ‘riqualificati’ (!?!?) dopo mesi di lavori.
Credo possa essere condivisibile la delusione per un progetto che ha ‘riqualificato’ una zona intensamente trafficata e densamente abitata, senza che fosse previsto alcun incremento del verde.
Se poi agli stessi lavori di ‘riqualificazione’ fosse legata la morte dei pochi alberi che già c’erano, alla delusione si aggiungerebbero tristezza e indignazione, e sarebbe francamente troppo!
Certo, sarebbe troppo… se fossimo in Giappone.
Un albero spostato in Giappone per far posto a un cantiere, in modo da garantirne la sopravvivenza
Proviamo allora solo per un attimo – Dio non voglia che ci prendiamo l’abitudine! – a metterci nei panni di quello strambo Giapponese che muove mari e monti ‘solo’ per salvare un albero. Potremmo mai perdonarci che un taglio delle radici fatto, magari, in maniera improvvida, possa aver causato la morte di un grande pino secolare, che era vivo e sano solo poche settimane prima?
Continuando a giocare a fare i Giapponesi, noteremmo alcuni tronchi danneggiati dalle macchine operatrici e ci verrebbe di alzare giusto un po’ gli occhi verso gli alberi vicini. Vedremmo allora che almeno altri due pini sono in una situazione di evidente sofferenza.
Ma qui non siamo in Giappone e l’attenzione agli alberi non è abitudine dei nostri occhi.
Mentre decido di scriverLe, assisto all’abbattimento del pino che – immagino – una necessaria perizia agronomica doveva aver dichiarato sano appena prima dell’avvio dei lavori. Sennonché, ora, sulla porzione di corso appena ‘riqualificata’, come da buon uso montesilvanese, già dà bella mostra di sé un’aiuola con un tronco reciso!
Il pino morto nel tratto riqualificato di Corso Umberto I
L’aspetto tipico dei pini attaccati dalla cocciniglia
Apprendo poi che la motivazione ufficiale della morte improvvisa dell’albero sarebbe l’attacco della cocciniglia. Maledetta cocciniglia, verrebbe da dire! Sì. Se non fosse che gli alberi attaccati dalla cocciniglia vivono una lenta agonia di mesi o addirittura di anni prima di arrivare alla morte. Nel caso in questione sono invece bastate pochissime settimane! Un pino attaccato dalla cocciniglia è riconoscibilissimo. I suoi rami si spogliano lentamente dei loro aghi a partire dal centro e anneriscono progressivamente a causa delle fumaggini che si sviluppano sulla cosiddetta ‘melata’, una sostanza appiccicosa prodotta dal malefico insetto. Tale sostanza si deposita anche a terra oltre che sui rami, ma il pino in questione non ne presentava traccia alcuna. Ancora, quando un pino è attaccato dalla cocciniglia, restano verdi più a lungo soltanto le cime più giovani, così, quando infine muoiono anch’esse, l’albero ha già perso quasi tutti i suoi aghi. Una situazione chiaramente diversa da quella documentata in foto.
A chi tra i lettori (o gli amministratori) fosse curioso (o, magari, attento al verde pubblico) basterebbe fare pochi passi in là, appena oltre il cavalcavia della ferrovia, per constatare, all’inizio di viale Aldo Moro, come si presentano dei pini – quelli sì! – attaccati in maniera massiccia dalla cocciniglia. Va da sé che, in mancanza di un intervento (quale potrebbe essere un trattamento endoterapico), sono anch’essi destinati a morte certa. Un altro piccolo polmone verde che di qui a poco sparirà.
Le condizioni attuali dell’aiuola
In tempi in cui si parla troppo spesso – e a sproposito – di “identità”, occorrerebbe ricordare che i pini (marittimi, domestici e di Aleppo) sono un elemento identitario del nostro paesaggio. E che la tutela dell’identità paesaggistica e ambientale dovrebbe essere al centro delle politiche e delle sensibilità di una città turistica quale ambisce ad essere Montesilvano. Soprattutto, una città verde e accogliente potrebbe puntare a un turismo di qualità, capace di incrementare le ricadute positive sull’economia e sulla qualità della vita di tutti e non di pochi. Non solo di presenze che riempiano gli alberghi con il “mordi e fuggi” legato ad eventi più o meno grandi ha bisogno la città. La città ha bisogno della nascita di un sistema produttivo dell’accoglienza che renda preferibile al turista (e al residente) restare a Montesilvano piuttosto che spostarsi nella vicina Pescara per cercare servizi, far compere, divertirsi. Ciò può accadere solo investendo sulla bellezza, quindi sul verde e, aggiungerei, sul decoro urbano e sulla pulizia. Ma la responsabilità di educare occhi e coscienze al bello è di tutti noi! Non solo degli amministratori.
La questione economica, insomma, come accade più spesso di quanto si sia disposti a credere – si intreccia profondamente con una questione di civiltà. Perché – sì! – l’attenzione al verde è anche e soprattutto un misuratore di civiltà. E se questa affermazione è vera, a Montesilvano la strada è ancora tutta in salita.
Risposta del direttore
Gentilissimo Marco,
grazie per la segnalazione che centra pienamente il disinteresse della città nei confronti del patrimonio arboreo. Vivo a Montesilvano dal 1976 e ricordo i bei viali alberati, viale Aldo Moro nel tratto tra la ferrovia e il curvone, corso Umberto dal Saline alla via Vestina, via Vestina con alcuni alberi monumentali e l’area collinare. È uno stillicidio, uno dopo l’altro stiamo portando alla morte gli alberi presenti da quell’epoca o li stiamo tagliando direttamente come avvenuto nei pressi della stazioncina ex-FEA o sulle strade a ridosso del cimitero. Nel passato ho sentito affermare che uno dei problemi di Montesilvano sono i troppi alberi negli spazi pubblici che mettono a rischio i fruitori degli stessi. Come minimizzare i rischi? Non monitorando la loro salute attraverso gli strumenti che la scienza forestale ci mette a disposizione ma tagliandoli. Alle lamentele di chi vede depauperarsi il patrimonio arboreo viene sempre risposto che saranno sostituiti da nuove piantumazioni. Alzi la mano chi ha notato sul territorio cittadino piantumazioni di successo. Marco lei propone la applicazione della maniacale cura giapponese nei confronti delle piante e ciò è inconcepibile per chi ritiene che il patrimonio arboreo cittadino sia un problema. È vero siamo incivili perché continuiamo a scegliere amministratori che non sono interessati alla cura e allo sviluppo del patrimonio arboreo cittadino. Amen!
La relazione della città con gli alberi
Ricevuta via mail il 16 giugno da Vincenzo Ostilio Palmieri, Bari
Caro Direttore,
le vibranti parole di Gennaro Passerini nel numero 4 di giugno 2024 de “Il Grande Sorpasso” mi hanno fatto ricordare che quest’anno cade il centenario della morte dello scrittore boemo Franz Kafka (3/7/1883-3/6/1924) che al tema generale del rapporto fra la persona e la Legge ha dedicato due dei suoi scritti, i romanzi Il Processo e Il Castello.
“Qualcuno doveva averlo calunniato, perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina Josef K. fu arrestato”. È uno degli inizi più straordinari della storia della letteratura mondiale e introduce uno dei romanzi più inquietanti e profondi che siano mai stati scritti. Non meno straniante l’altro romanzo, Il Castello, che è la descrizione allegorica della sensibilità dell’umile signor K. verso la dimensione anonima del moloch burocratico, del leviatano statale: un agrimensore, assunto dal Castello, non riuscirà mai ad entrare in contatto con l’amministrazione poiché i suoi tentativi si infrangono contro una burocrazia farraginosa, dalle regole complesse quanto impenetrabili, e da gerarchie imperscrutabili.
Il dottor Passerini evoca scenari di realtà giuridica che non sembrano tanto lontani dalle situazioni alienanti descritte da Kafka, quando ci ricorda se sia giusto applicare la carcerazione preventiva come metodo coercitivo per scoprire la presunta corruzione e chi debba poi ripagare degli addebiti infamanti, della gogna mediatica, della vita sociale distrutta, coloro che entrano nell’ingranaggio limaccioso della Legge per poi eventualmente uscirne dopo anni con un nulla di fatto o, i più fortunati, con una sentenza di innocenza.
Kafka descrive situazioni affini con parole e allegorie di valore universale. Ne Il Processo, la Legge non è conosciuta da Josef: “essa è la norma, che si rivela soltanto nel suo concreto e crudele attuarsi (l’arresto e l’esecuzione capitale dell’incolpevole Josef); non si discopre come criterio di condotta e di giudizio, ma sta, remota e inaccessibile, in inviolabile oscurità”. Così si esprime Natalino Irti, grande giurista italiano, già ordinario di Giurisprudenza, nel Il Sole 24 Ore del 9 giugno 2024, con una accidentale coincidenza temporale con l’articolo di Passerini.
Dalla lettura dei romanzi di Kafka, sembra di capire che la legge, liberata da fonti e scorie religiose o metafisiche, resta spesso custodita da guardiani superbi o arroganti e lontana dall’umile protagonista del Processo, che diviene una allegoria del popolo o meglio dei cittadini, come dice Gennaro Passerini.
Il professor Irti chiosa con chiarezza che l’obbedienza alla legge è una necessità talora costrittiva, di cui non si controlla verità o falsità, richiamando la massima romana: “pro veritate accipitur”: la sentenza, quale che ne sia il contenuto, è essa stessa verità vincolante, necessità a cui il convivere non può sottrarsi. Io aggiungo: Legge necessaria perché il male e la cattiveria, la mancanza di rispetto delle persone e delle norme esistono,
È una conclusione pessimista?
No, perché bisogna sapere entrare nella carne di certe verità, pur dolorose o angosciose, ma bisogna aprire uno squarcio di luce sul futuro, guardare oltre il male, la cui esistenza è la principale ragione della nascita della Legge e delle leggi.
Nel nostro Paese, la Legge o la Giustizia, che dir si svoglia, si snocciola in una miriade di percorsi, a volte, come sottolinea con lucidità Gennaro, condizionati da scorie non più religiose o metafisiche ma crudamente politiche. Ma quello del nostro Paese o più in generale dei Paesi Occidentali è un esempio di Società aperta, per dirla con le parole del filosofo austriaco Karl Popper che, per confutare le teorie alla base dei totalitarismi del secolo scorso, nazifascismo e comunismo, scrisse un ponderoso trattato dal titolo significativo “La Società aperta e i suoi nemici”. Egli dice fra l’altro: se vogliamo rimanere uomini, c’è unicamente una strada, la strada verso la società aperta, per perseguire la nostra marcia verso l’ignoto, verso ciò che non sappiamo, verso l’incerto, per pianificare non solo la nostra sicurezza (di qui la necessità della Legge) ma al medesimo tempo la nostra libertà”. Nella società aperta ogni cittadino deve operare nel pensiero critico per il miglioramento, che richiede libertà di pensiero ed espressione, mentre le istituzioni politiche, culturali e legali sono chiamate ad aiutare in questo percorso.
Risposta del direttore
Gentilissimo Vincenzo,
grazie per il suo prezioso contributo che mi consente di evidenziare un recente accadimento che segna un incredibile degrado dell’amministrazione della Giustizia. Mi riferisco alla gravità delle motivazioni in base alle quali il Tribunale del Riesame di Genova ha ritenuto permanere il pericolo di reiterazione del reato da parte dell’indagato Presidente della Regione Liguria Giovanni Toti. Egli, dicono quei giudici, non si è mostrato consapevole della gravità del reato commesso; tutto da dimostrare in un procedimento che è ancora lontano nel tempo, dunque proprio in ragione di tale sua inconsapevolezza, potrebbe reiterare reati della stessa specie. Qui la cosa strabiliante è che questo cupo ed inquietante giudizio sul mancato pentimento di Giovanni Toti viene formulato a carico di chi è ancora solo sospettato di aver commesso il reato. Di cosa dovrebbe acquisire consapevolezza costui, se egli si proclama innocente? Come potrebbe mai mostrare consapevolezza della gravità della sua condotta, visto che la ritiene del tutto lecita, come si ripromette di dimostrare? La evidente quanto allarmante gravità del ragionamento di quei giudici sta tutta qui: chi non si riconosce colpevole è un soggetto pericoloso, perché in grado di reiterare il reato a causa della sua mancata resipiscenza. Dunque, nel caso di specie, o confessa, o si dimette. Alla base di questo terrificante cortocircuito logico-processuale vi è, naturalmente, l’ormai conclamata deriva incostituzionale dell’uso, anzi, dell’abuso della custodia cautelare nel nostro Paese.
Il clima manettaro imperante è preoccupante anche perché, mi sembra, dimentichiamo sempre la nostra Costituzione che all’articolo 27 dichiara: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”
La battaglia politica non dovrebbe sfruttare la mano armata giudiziaria, ma da Craxi in poi, purtroppo, l’amministrazione della Giustizia non è esente da azioni che tendono a impattare sul potere politico.
Se il presidente Toti ha commesso atti illeciti, lo si porti in Tribunale con le prove raccolte e gli si permetta di difendersi per dimostrare la sua innocenza e non lo si mantenga in stato di carcerazione preventiva perché ci sono indagini in corso. Delle due l’una, o si hanno le prove e le si utilizza in Tribunale o lo si lasci governare fino a quando le indagini non saranno concluse, come da scelta degli elettori liguri.