Terzo genere: la Corte Costituzionale ritiene inammissibile il genere non binario
Il tema della rettificazione del sesso dell’individuo nell’ultimo periodo è stato al centro di numerosi dibattiti sotto il profilo giuridico.
In tal senso, un notevole numero di soggetti, infatti, ha chiesto alle varie corti nazionali l’attribuzione di un genere e, dunque, di un sesso differente rispetto a quello attribuito e enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei propri caratteri sessuali.
Come noto, i generi sessuali riconosciuti dalla legge sono quello maschile e quello femminile.
Ed invero, dal complesso delle norme che caratterizzano l’ordinamento giuridico italiano, emerge la possibilità e, dunque, il diritto per i consociati di poter chiedere ed ottenere la rettificazione finalizzata ad ottenere l’attribuzione di un genere sessuale di stato civile dell’individuo interessato differente rispetto a quello attribuito alla nascita.
Nello specifico, la norma che disciplina e che quindi riconosce la detta facoltà è l’art. 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 recante “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 106 del 19 aprile 1982 e successivamente modificata dal decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150.
Dall’analisi della norma da ultima menzionata emerge come “La rettificazione (del sesso ndr) si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”.
Tuttavia, occorre segnalare che la legge non ammette e, di fatto, preclude il riconoscimento del cosiddetto terzo genere, vale a dire un genere “non binario”, quindi differente rispetto ai generi maschili e femminili.
Cosicché, potenzialmente, si rende possibile, alla luce di quanto previsto dalla normativa, chiedere ed ottenere solo ed esclusivamente un’attribuzione di un genere binario con la naturale conseguenza che è possibile variare il genere di stato civile da maschile a femminile e da femminile a maschile.
Fermo restando quanto sopra in merito alla caratterizzazione binaria (uomo-donna) del sistema giuridico nostrano appare opportuno accennare alla norma che disciplina le procedure inerenti la rettificazione di attribuzione di sesso.
All’uopo, la norma da tenere in considerazione è l’art. 31, del decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150 recante “Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’art. 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69”.
I commi 1 e 2 della norma in analisi forniscono una disciplina dettagliata per quanto concerne la procedura giudiziaria finalizzata all’ottenimento della rettifica del genere e, infatti, dispongono che le controversie aventi ad oggetto la rettificazione di attribuzione di sesso sono regolate dal rito ordinario per il quale risulta essere competente il Tribunale, in composizione collegiale, del luogo ove ha la residenza l’attore e, dunque, il soggetto interessato alla rettifica del genere di sesso. Inoltre, dalla lettura del comma 3, emerge come nel procedimento volto alla rettificazione di attribuzione del sesso debbano essere coinvolti il coniuge e i figli del richiedente la rettifica nonché il Pubblico Ministero.
Nondimeno, i commi 5 e 6, per contro, prevedono che a seguito di sentenza che dispone la rettificazione del sesso detta rettificazione venga riportata dall’ufficiale di stato civile del comune dove è stato compilato l’atto di nascita prevedendo, parimenti, la non efficacia retroattiva della sentenza di rettifica la quale, peraltro, determina lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso.
Il comma 4, invece, è del seguente tenore: “Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato […]”.
Detto ultimo comma assume sicuramente una rilevanza non trascurabile per quello che in questa sede interessa.
Infatti, il comma 4, art. 31, del decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150 unitamente all’art. 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 rappresentano le norme per le quali è stato richiesto il vaglio di legittimità costituzionale.
In quest’ottica, la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi in merito alla questione dell’ammissibilità dell’attribuzione del terzo genere, ossia di un genere non binario, a seguito di rettifica del genere dello stato civile nonché a vagliare i profili di legittimità costituzionale relativi ai requisiti richiesti ai fini dell’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione del sesso.
La procedura finalizzata a valutare le sollevate questioni di legittimità costituzionale si è conclusa con la pronuncia, da parte della Corte Costituzionale, della sentenza n. 143 del 2024 depositata in data 23 luglio 2024.
Entrando nel merito della questione che ha portato alla pronuncia della sentenza n. 143 del 2024 della Corte Costituzionale occorre evidenziare che la vicenda era stata sollevata dal Tribunale di Bolzano.
Segnatamente, il Tribunale di Bolzano veniva adito da persona anagrafica di sesso femminile, la quale non si riconosceva tuttavia in tal genere né propriamente in quello maschile bensì in un genere non binario, seppure incline al polo maschile.
Il ricorrente tempi addietro assumeva nome maschile dal quale ormai si sentiva definita rispetto alla società per poi rivolgersi alle strutture sanitarie pubbliche presso le quali riceveva una diagnosi di disforia o incongruenza di genere, per identificazione non binaria, con propensione alla componente maschile.
Talché questi chiedeva al Tribunale di Bolzano la rettificazione del sesso da “femminile” ad “altro” con cambiamento del nome chiedendo altresì il riconoscimento del diritto, da parte del Tribunale adito, di sottoporsi a ogni intervento medico chirurgico in senso gino-androide con particolare riferimento alla pratica medica della mastectomia, ossia l’asportazione chirurgica delle mammelle.
Pertanto, come visto, il Tribunale di Bolzano al fine di esprimersi in merito alla domanda avanzata dal ricorrente provvedeva a sollevare due diverse e specifiche questioni di legittimità costituzionali. La prima questione riguardava la valutazione della legittimità costituzionale dell’art. 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 – che disciplina la rettificazione del genere – nella parte in cui non prevede che il genere assegnato con la sentenza di rettificazione dell’attribuzione del sesso possa anche essere un “altro sesso” diverso da quello maschile e femminile e, quindi, non rientrante nella caratterizzazione binaria in quanto violerebbe gli artt. 2, 3, 32 e 117, comma 1, della Costituzione della Repubblica italiana (quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU).
La seconda questione sollevata, invece, è relativa alla legittimità costituzionale del comma 4, art. 31, del decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150 nella parte in cui subordina all’autorizzazione del Tribunale la realizzazione del trattamento medico chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali in quanto violerebbe gli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione della Repubblica italiana.
Per quanto concerne la prima questione, quella relativa alla possibilità di rettifica da un genere binario ad un genere di “altro sesso”, la questione di illegittimità costituzionale è stata dichiarata inammissibile dalla Corte Costituzionale escludendo, quindi, la possibilità di attribuzione di un genere di stato civile differente rispetto alla tradizionale caratterizzazione binaria uomo-donna.
In buona sostanza la Corte, citando anche pregiatissimi precedenti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU)[1], ha sottolineato come la stessa Corte EDU, ferma nell’accordare tutela convenzionale alla transizione verso un genere binario, ha recentemente escluso che l’art. 8 CEDU ponga sugli Stati membri un’obbligazione positiva di registrazione non binaria, non potendosi ritenere ad oggi sussistente un consenso europeo al riguardo.
Ne discende che la Corte EDU ha statuito come la società europea non risulterebbe, ad oggi, favorevole ad un’apertura nei confronti di un genere non binario.
La sentenza della Corte Costituzionale sottolinea al riguardo che la caratterizzazione binaria (uomo-donna) informa, tra l’altro, il diritto di famiglia, del lavoro e dello sport, la disciplina dello stato civile e del prenome oltreché la conformazione dei “luoghi di contatto” (carceri, ospedali e simili).
Tuttavia, la Corte, nonostante sia pervenuta ad un giudizio di inammissibilità della questione di legittimità in merito rettificazione del genere in favore del terzo genere, non manca di tener conto della realtà sociale.
In merito, la Corte rileva che “[…] la percezione dell’individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità “altra” – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.)” e che, “nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della persona, questa condizione può del pari sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute, alla luce degli artt. 3 e 32 Cost.”.
A conferma del fatto che la Corte, nonostante la decisione di escludere la possibilità di rettificazione di attribuzione di sesso con un “altro sesso”, abbia compreso la portata del fenomeno non solo da un punto di vista giuridico ma, anche e soprattutto, da un punto di vista socio-culturale, tenuto conto della delicatezza e della complessità della questione e delle conseguenze che un tal riconoscimento comporterebbe in ogni e qualsivoglia campo e settore, ha sollecitato il legislatore demandando a questi l’intervento normativo.
Infatti, dal testo della sentenza 143 del 2024 emerge che: “[…] l’eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria”.
“Tali considerazioni” – conclude la Corte – “unitamente alle indicazioni del diritto comparato e dell’Unione europea, pongono la condizione non binaria all’attenzione del legislatore, primo interprete della sensibilità sociale”.
In merito alla seconda questione, relativa, come visto, alla legittimità costituzionale del comma 4, art. 31, del decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150 nella parte in cui subordina all’autorizzazione del Tribunale la realizzazione del trattamento medico chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali in quanto violerebbe gli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione della Repubblica italiana, la Corte Costituzionale si è pronunciata favorevolmente rispetto alla questione stessa.
In altri termini la Corte, relativamente a tale seconda questione, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 4, art. 31, del decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150 nella parte in cui prescrive la necessaria autorizzazione del Tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dal medesimo Tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.
Per l’appunto, la Corte ha osservato che, potendo il percorso di transizione di genere “compiersi già mediante trattamenti ormonali e sostegno psicologico-comportamentale, quindi anche senza un intervento di adeguamento chirurgico”, la prescrizione dell’autorizzazione giudiziale di cui alla norma censurata denuncia una palese irragionevolezza, nella misura in cui sia relativa a un trattamento chirurgico che “avverrebbe comunque dopo la già disposta rettificazione”.
In tali casi, la Corte ha rilevato che il regime autorizzatorio imposto e richiesto dal comma 4 della norma in parola, non essendo funzionale a determinare i presupposti della rettificazione, già verificatisi a prescindere dal trattamento chirurgico, viola l’art. 3 della Costituzione, in quanto non rispondente più alla ratio legis della norma stessa e, quindi, alla funzione della medesima norma.
Cosicché la Corte ha statuito che, nei casi in cui i presupposti necessari richiesti e imposti dalla legge affinché venga pronunciata sentenza favorevole che autorizza il trattamento medico-chirurgico per l’adeguamento dei caratteri sessuali si siano già verificati, ritiene non necessaria l’autorizzazione stessa del Tribunale considerato che ricorrono già i requisiti necessari.
Pertanto, non risultando più necessario l’intervento chirurgico per ottenere una sentenza che dispone la rettificazione, non risulterà, parimenti, più necessaria nemmeno l’autorizzazione del Tribunale a sottoporvisi a tali tipi di trattamenti anche perché, nella prassi, si verifica che le autorizzazioni agli interventi concesse dalle corti di merito, tendenzialmente, vengono rilasciate contestualmente alla sentenza di rettificazione e non prima di quest’ultima né, tantomeno, in funzione della stessa.
*Cultore della Materia in Diritto Notarile nell’Università degli Studi di Bologna
[1] Si v. Corte EDU, sentenza della grande camera, 11 luglio 2002, Christine Goodwin contro Regno Unito e sentenza 31 gennaio 2023, Y. contro Francia