Il delitto d’onore e il matrimonio riparatore (prima parte)
di Avv. Dario Antonacci (Cultore della Materia in Diritto Notarile nell’Università degli Studi di Bologna)
L’ordinamento giuridico italiano odierno, sotto il profilo penalistico, non conosce più l’esistenza del cosiddetto delitto d’onore né, tantomeno, del cosiddetto matrimonio riparatore per via della loro intervenuta abrogazione.
Invero, sebbene comunemente, nel gergo quotidiano, si parla, come visto, di delitto d’onore, alla norma che prevedeva la punizione del detto delitto, ossia l’art. 587 codice penale (c.p.), veniva attribuito il nomen iuris di “Omicidio e lesione personale a causa di onore”.
Prima di affrontare più da vicino il contenuto della citata norma è bene analizzare il contesto in cui veniva adottata una simil norma.
L’art. 587 era contenuto all’interno del codice penale, tutt’oggi vigente, promulgato con Regio Decreto 19 ottobre 1930, n. 1398 recante norme in tema di “Approvazione testo definitivo del Codice penale”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 251 del 26 ottobre 1930, anche conosciuto come “Codice Rocco”, dal nome dell’allora Ministro di grazia e giustizia del governo Mussolini che ne curò principalmente l’estensione, Alfredo Rocco.
Pur tuttavia, l’inserimento nel codice penale del 1930, nonostante il periodo storico, sociale e culturale del tempo, fondato su una società fortemente patriarcale, non rappresentava proprio una novità e, dunque, non appariva a quel tempo come una norma inedita e mai contemplata prima di quel momento.
Difatti, già nel codice penale previgente, ossia il codice penale emanato con Regio Decreto 30 giugno 1889, n. 6133, recante norme in materia di “Approvazione del codice penale”, comunemente detto “Codice Zanardelli”, dal nome dell’allora Ministro di Grazia e Giustizia che ne promosse l’approvazione, Giuseppe Zanardelli, entrato in vigore il 1° gennaio 1890 e vigente fino all’entrata in vigore del successivo codice penale Rocco, era prevista una primordiale versione del delitto d’onore.
Per meglio comprendere la finalità della norma pare doveroso, in primo luogo, soffermarsi sul concetto di onore.
In buona sostanza, l’onore, che rappresenta un bene immateriale, secondo quella che era la prospettiva statale nel periodo di approvazione dell’ancora oggi vigente codice penale e per molto tempo ancora, è risultato essere un movente degno di indulgenza, in riferimento al quale doveva tenersi conto anche ai fini giuridici.
Per di più, l’onore nel tempo si è manifestato come concetto strettamente connesso con la morale sessuale degli individui.
Il concetto d’onore, con la sua connotazione sessuale, era da riferirsi tanto alle donne, considerato che per queste l’onore era rappresentato dalle virtù della castità e dalla onestà, quanto agli uomini, i quali a loro volta avevano il compito di difendere le virtù e, dunque, l’onore delle donne di famiglia.
In un certo qual modo le donne erano considerate le depositarie e le responsabili dell’onore mentre gli uomini erano tenuti a ripristinare la dignità qualora offesa, con la ovvia conseguenza che solo con l’eliminazione fisica e/o mediante altra punizione fisica da infliggere a chi aveva provocato lo scandalo si riuscisse a ripristinare la virtù pubblica riacquistando, parimenti, la credibilità perduta, placando il dolore patito e, dunque, salvando in qualche modo l’onore.
Ne consegue che i rapporti sessuali illegittimi del coniuge, della figlia o della sorella potevano suscitare l’ira giustificata dell’altro coniuge, del genitore o del fratello, dal momento che questi rappresentavano una macchia sull’onore della famiglia e, pertanto, tali gesti potevano essere vendicati con un delitto, punito, evidentemente, con pene assai lievi.
Questa era la ratio della norma.
Difatti, dovendosi attribuire il valore di scusante dello stato di provocazione determinato da una grave offesa al sentimento dell’onore, per il delitto d’onore veniva prevista una pena detentiva meno afflittiva rispetto alla pena prevista per il medesimo delitto non giustificato dalla causa dell’onore.
Alla norma che prevedeva il detto delitto d’onore, ossia l’art. 587 c.p., come detto, veniva attribuito il nomen iuris di “Omicidio e lesione personale a causa di onore”.
Di tal guisa, la norma di cui all’art. 587 c.p. prevedeva, dunque, un trattamento sanzionatorio più mite per chi avesse ucciso il coniuge, la figlia o la sorella al fine di difendere l’onore suo o della propria famiglia.
Asseritamente, l’art. 587 c.p. sanzionava con la reclusione da tre anni a sette anni chiunque cagionava la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopriva la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onore suo o della propria famiglia.
Veniva, inoltre, applicata la stessa pena – con lo stesso trattamento sanzionatorio di favore – nei confronti del soggetto che, nelle medesime circostanze, cagionava la morte della persona, durante una illegittima relazione carnale con il coniuge, con la figlia o con la sorella.
Il terzo comma, poi, prevedeva una pena ridotta, anche per il delitto di lesioni, sempre al ricorrere delle medesime circostanze, vale a dire nel caso in cui le lesioni erano state determinate dalla provocazione dell’offesa dell’onore.
Infine, l’ultimo comma sanciva la non punibilità di colui il quale, nelle medesime circostanze, avesse commesso contro le dette persone il fatto preveduto e punito dalla norma medesima.
Del resto, se è vero che il bene tutelato dalla norma in parola era rappresentato dalla vita e dall’incolumità, è altresì vero che tale tutela veniva in parte limitata nel caso in cui vi era stata la cosiddetta provocazione determinata dall’offesa al sentimento dell’onore.
Ciò posto, è possibile pacificamente affermare che il delitto d’onore ha rappresentato una forma di sostituzione della giustizia patriarcale alla giustizia statuale.
Legata al concetto di onore, sempre nell’accezione già vista, era anche connessa la funzione riparatrice del matrimonio, allorquando veniva celebrato tra la vittima e l’autore della violenza.
Al pari del delitto d’onore, anche la norma che regolava il matrimonio riparatore veniva adottata nel medesimo contesto storico, politico, culturale e sociale, vale a dire con l’entrata in vigore del vigente codice penale, anche conosciuto come codice Rocco.
Il cosiddetto matrimonio riparatore, all’opposto, era regolamentato dell’art. 544 c.p. al quale veniva attribuito il nomen iuris “Causa speciale di estinzione del reato”.
La norma recitava che: “Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio che l’autore del reato contragga con la persona offesa estingue il reato, anche con riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.”
La causa di estinzione del reato appena citata, comunemente appellata con il nome di “matrimonio riparatore” concerneva, come emerge dalla lettura dell’abrogato art. 544 c.p., tutti quei reati previsti e puniti dal Capo I “Dei delitti contro la libertà sessuale” del Titolo IX “Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume” del codice penale, vale a dire i delitti di “violenza carnale”, “congiunzione carnale commessa con abuso della qualità di pubblico ufficiale”, “atti di libidine violenti”, “ratto a fine di matrimonio”, “ratto a fine di libidine”, “ratto di persona minore degli anni quattordici o inferma a fine di libidine o di matrimonio”, “seduzione con promessa di matrimonio commessa da persona coniugata” allora previsti dall’art. 519 c.p. e seguenti oltreché, come visto, il reato previsto e punito dall’art. 530 c.p. che sanzionava la condotta di colui il quale poneva in essere “corruzione di minorenni”. (continua ..)