Il “DREAMTIME” e l’Arte Aborigena

di Tonino Bosica

Arrivarono per la prima volta in Europa, a Parigi, nel 1855 in occasione dell’Esposizione Universale di Belle Arti. I dipinti su corteccia degli alberi erano degli aborigeni australiani. Furono subito bocciati, sia dai critici sia dal pubblico perché ritenuti inferiori, paragonati ai maestri europei. Potevano essere interessanti solo per gli antropologi. E per altri 100 anni nessuna attenzione dai collezionisti e da gallerie private, solo sporadiche esposizioni museali. È stato accertato con varie datazioni che gli aborigeni vivono nel continente da oltre 50.000 anni e sono riusciti a creare una loro cultura piena di riti, di tradizioni e di letteratura orale. Hanno sempre avuto un forte legame con la loro terra rispettandola, senza prendere nulla di più di quanto era loro necessario. Essi non avevano una propria scrittura, tutto il sapere era stato tramandato attraverso il tempo per via orale e attraverso l’arte della pittura. Una testimonianza, che ha resistito attraverso il tempo alle violenze dei bianchi colonizzatori. Gli aborigeni hanno dipinto grotte, rocce, pelli, cortecce, i lori corpi e disegnato sulla sabbia per riti magici.

La colonizzazione ebbe inizio nel 1778, gli inglesi la definivano “terra nullius” e gli aborigeni inermi, si ritrovarono prigionieri nella loro stessa terra dentro alle riserve, le colonie! I bianchi introdussero nel continente nuove malattie e migliaia furono i morti tra gli indigeni che non avevano ancora sviluppato gli anticorpi necessari. Dal 1869 al 1969 il governo dei bianchi attua con la complicità di diverse missioni religiose una vera e propria deportazione dei bambini, tanti di sangue misto, meticci! Centomila bambini, letteralmente strappati dalle braccia dei genitori dai poliziotti, per essere educati negli orfanotrofi o collegi. Con l’insegnamento della religione cristiana si cercava nel contempo di annullare le usanze tramandate da secoli. Vi erano allora oltre 700 lingue parlate, oggi se ne contano solo un terzo. Un dramma vergognoso per l’Australia democratica di oggi. Questo dramma vissuto soprattutto dalle madri è descritto senza riserve nel romanzo autobiografico “My Place” del 1987 di Sally Morgan. Psicologa, scrittrice, artista, lei aborigena, non ha, non prova la vergogna della nonna. Lei consapevole e intraprendente riesce a ribaltarne il concetto: la vergogna diventa orgoglio! Il libro già nel 2000 era stato tradotto in 11 lingue ed ha vinto il prestigioso premio Weickardt Award. In italiano porta il titolo: La mia Australia. Passano altri anni, è febbraio del 2008 quando a Camberra in parlamento (finalmente), il primo ministro Kevin Rudd prende la parola di fronte a milioni di persone collegate anche via satellite, per onorare la popolazione indigena. La più antica cultura sopravvissuta nella storia dell’umanità ancora vivente. Chiede inoltre perdono per i maltrattamenti, per il dolore inflitto a padri, madri, fratelli, sorelle e per lo smembramento delle comunità. Auspicando un futuro sul rispetto, sul sostegno reciproco per un comune senso di responsabilità. Promettendo altresì di scrivere un nuovo capitolo in cui tutti gli australiani, qualunque sia la loro origine siano davvero uguali e con le medesime opportunità.

L’arte aborigena australiana come la conosciamo oggi nasce a Papunya nel 1971. Lo dobbiamo ad un giovane insegnante di nome Geoffrey Bardon che appena arrivato si rese subito conto che bisognava fare qualcosa per ridare vita agli indigeni depressi e alcolizzati. Chiese loro di dipingere i muri della scuola. In un primo momento gli anziani si opposero, non volevano mostrare agli estranei i loro segreti custoditi per migliaia di anni. Dopo accese discussioni, accettarono con uno stratagemma, ossia: dipingere a puntini. Per frammentare l’immagine, per renderla meno leggibile. Ma l’esperimento piacque tanto anche ad altri artisti, quando in seguito passarono a dipingere su tela, si misero a dipingere allo stesso modo. A dipingere sono principalmente le donne, non usano il cavalletto, buttano la tela bianca o nera che sia sul pavimento o sul terreno. Se la tela è di grandi dimensioni si siedono sopra, disegnano tutta la superficie e riprendono a colorare dal centro verso l’esterno. Vari gli stili e i temi dovuti alle grandi distanze e alle credenze locali. Le nuove generazioni puntano soprattutto all’aspetto compositivo e a personalizzare l’opera per rendersi riconoscibili. Inizialmente questi artisti che lavoravano in un modo autonomo, si resero conto di non ricevere un adeguato compenso per il loro lavoro. Decisero così di organizzarsi in cooperative e nacquero i centri di raccolta (Art Centres). Oggi se ne contano una ventina, tra i più noti oltre Papunya, annotiamo Utopia, Haasts Bluff, Balgo Hills, Yuendumu, Lajamanu. Inizialmente per dipingere utilizzarono le terre naturali, il bianco, il giallo, il nero e il rosso. Colori che, escluso il bianco, ritroviamo nella loro bandiera. Oggi utilizzano per lo più i colori acrilici europei, già in vasetti e con tempi di essiccazione ridotti. Attraverso i loro dipinti raccontano il “Dreamtime” la rappresentazione mitologica della creazione. È il tempo dove tutto ha avuto inizio: la terra, il cielo, il mare ecc. Anche se sono passati 50 anni, la decifrazione o lettura di un dipinto aborigeno non è mai completo. Si conosce ancora poco della loro simbologia. Una U o un ferro di cavallo visto dall’alto può essere un uomo. Un cerchio può essere un pozzo o un seme. Una linea retta un’arma. Due linee rette bastoni che evocano la pioggia. Dei cerchi concentrici un sito sacro. Linee rette che incontrano cerchi concentrici sono piste che uniscono siti sacri. In pratica sono delle mappe, infatti, un dipinto dove non è presente l’uomo o un animale, può essere appeso al muro come si preferisce. Dipingono gli spiriti ancestrali come Ngaliod, il serpente arcobaleno, protettore della vita e della terra che può creare e distruggere a sua volontà. I Mimih, spiriti buoni dalle figure esili e leggeri, capaci però con un soffio di aprire una roccia. Dipingono Marlwa, lo spitito malvagio. Yawk Yawk, lo spirito dell’acqua, paragonabile al mito delle nostre sirene. E altri spiriti come Wandjina e Devil Devil. Dipingono coccodrilli, pesci, uccelli, varani, emu, Kangaroo, contestualizzati nel loro habitat naturale. Gli aborigeni sono custodi dei siti sacri, della terra ritenuta di tutti e dei sogni. E proprio questi sogni dipinti testimoniano il senso di appartenenza, il forte senso spirituale, il recupero della loro memoria per essere trasmessa alle generazioni future. Dopo tante umiliazioni, tante frustrazioni subite, per l’artista aborigeno, sapere che questi dipinti sono desiderati e presenti in tutto il mondo (anche nei musei non etnografici), rappresentano una rinascita. L’artista è un iniziato a cui sono stati rivelati i significati più reconditi della simbologia utilizzata. Egli è tenuto a non svelare ma a celare questi segreti. Inoltre non può appropriarsi dei temi e contenuti che non appartengono alla sua tribù, è sacrilegio!

Un dipinto o una scultura di un aborigeno non è mai banale o decorativo, è stupefacente, è espressione di valore estetico, è conoscenza!

Tra gli artisti che operano attualmente, e sono tanti, vorrei nominare le sorelle Gabriella e Michelle Possum Nungurrayi, le sorelle Katlen e Gloria Petyarre, Gary Simon Jagamarra, Mitjili Napurrula, Linda Siddick Napaltyarri e lo scultore Jimmi Angunguna.

Oltre alla Biennale di Venezia del 1997, una mostra di arte aborigena ha visto la luce in Sicilia, in Piemonte, in Lombardia, in Sardegna, in Toscana e nel Lazio (Roma 2010), con la pubblicazione di un corposo catalogo: Australia Today.

Oggi sono circa 500.000 o poco più gli indigeni che vivono in Autralia. Tanti si sono urbanizzati, vestono all’occidentale, usano il telefonino e il computer. Tanti, riavute le loro terre sono ritornati da dove erano stati deportati. Altri hanno preferito continuare a vivere vicino alle colonie per la comodità di trovare nei pressi tutto il necessario. Quelli che sono tornati ad abitare le singole case ai margini dei deserti non mancano di fuoristrada per spostamenti rapidi o per altre necessità. Ciò nonostante, il “Dreamtime” è sempre sentito e necessario, per ribadire una propria cultura, una propria appartenenza e soprattutto una propria identità. Vi partecipano i custodi, capaci di identificarsi con gli spiriti e le forze creatrici dell’universo. Uomini che hanno il dovere di iniziare altri e trasmettere le loro conoscenze.

L’opera riprodotta, dal titolo My Red Desert Wildflowers (i miei fiori selvatici del deserto rosso) è dell’artista aborigena 48enne, Linda Smith Penangke. Il dipinto di straordinaria finezza e di bella fattura dà allo spettatore la possibilità di immaginare un altro mondo. Contraddice però l’immaginario collettivo: il deserto come luogo arido e senza vita. Qui l’opera si accende di colori, c’è il sito sacro, ci sono le piste, c’è la vegetazione fatta di piccoli arbusti e ci sono i fiori. Il deserto è vivo!

P.S. Sono in grado di organizzare una grande mostra anche per il nostro territorio. Ho tutti i contatti necessari. Ho anche i quadri. Se qualche assessore o sindaco raccoglie l’invito può contattarmi.

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